Giornalismo sotto attacco in Italia

La chiave e la ferita: anatomia di un femminicidio e dell’ossessione del possesso

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Martedì 14 ottobre, la normalità della sera è stata squarciata da un atto che, pur nella sua ferocia, non è un’eccezione ma un sintomo. Pamela Genini, ventinovenne modella e imprenditrice, è stata uccisa con 24 coltellate da Gianluca Soncin, cinquantaduenne, che aveva duplicato di nascosto le chiavi del suo appartamento per introdursi nella sua casa e, infine, nel suo destino. Un gesto che travalica il crimine per farsi metafora: l’atto di copiare una chiave è la traduzione materiale di una presunzione simbolica — quella di poter disporre di un corpo, di un tempo, di una vita che non appartiene più (o non è mai appartenuta) a chi pretende di possederla.

Come ogni femminicidio, quasi in un tragico copione, la casa profanata e la paura come oracolo: secondo la ricostruzione della Procura di Milano, Pamela, in quel momento, era al telefono con un ex compagno, ormai amico, a cui confidava la paura di un incontro imprevisto: l’uomo che cercava di evitare era già dentro casa sua ma le mura che avrebbero dovuto proteggere si sono trasformate in confine violato, in inutile e fragile guscio.

Virginia Woolf scriveva che “una donna deve avere denaro e una stanza tutta per sé se vuole scrivere romanzi”; eppure, a un secolo di distanza, quella stanza continua a non essere del tutto sua. L’autonomia femminile, il diritto al proprio spazio — fisico, mentale, simbolico — restano minacciati da un’idea arcaica di appartenenza che si traveste da “amore”.

Il femminicidio non è mai un gesto isolato, ma il punto terminale di una traiettoria culturale. Pierre Bourdieu, nella Domination masculine, osserva che la violenza di genere è “una struttura invisibile che si perpetua nei corpi e negli schemi percettivi”, una pedagogia del dominio interiorizzata tanto da chi la esercita quanto, spesso, da chi la subisce.

In questo senso, il coltello non è solo un’arma, ma un linguaggio: la grammatica terminale del possesso. La crudeltà delle 24 coltellate non è l’esplosione di un “raptus”, ma la dichiarazione simbolica di un principio di dominio: se non sei mia, non sei.

Elias Canetti, in Massa e potere, scriveva che “l’atto di uccidere è un modo per impedire all’altro di continuare a esistere al di fuori di noi”. È la formula perfetta del femminicidio: eliminare colei che, affermando la propria libertà, minaccia il fragile equilibrio identitario del maschio che ha confuso l’amore con la sovranità.

Mentre si vieta per legge l’introduzione dell’educazione sessuo-affettiva e al consenso nelle scuole, perpetriamo socialmente ai nostri figli la pedagogia del possesso: viviamo immersi in una cultura che, sin dall’infanzia, educa al possesso più che alla relazione. L’amore viene narrato come conquista, la gelosia come prova di passione, la perdita come fallimento. Pamela Genini, come troppe altre donne, è rimasta intrappolata in questo lessico emotivo deformato, dove il “no” diventa offesa, il distacco diventa tradimento, la libertà femminile un’eresia.

Come ricorda la filosofa Adriana Cavarero, “la violenza contro le donne è il tentativo estremo di ricondurre all’ordine la differenza”. Il rifiuto femminile è, in questa prospettiva, un atto di disobbedienza ontologica: rompe il contratto implicito di subordinazione, e per questo viene punito.

Siamo la società “del rifiuto del rifiuto”: il femminicidio di Milano non parla solo di un uomo e di una donna, ma di una società che non tollera il rifiuto come gesto legittimo. “Non accettare di non essere amati” è il nucleo patogeno del maschile contemporaneo, scrive Massimo Recalcati, e la cronaca di ogni settimana sembra dargli ragione.

Il femminicidio è la versione estrema di questa intolleranza: la trasformazione del dolore in dominio, del sentimento in rivendicazione, del legame in possesso. È la sconfitta di una cultura che ancora non ha saputo ridefinire il significato della parola “amore” al di fuori del paradigma della proprietà, esasperazione di un capitalismo che permea e deforma, mostrificandole, finanche le relazioni interpersonali.

Ecco che l’unico vero luogo di rivoluzione, di capovolgimento dei paradigmi patriarcali, di riscrittura della grammatica del rapporto tra i generi è il linguaggio: le parole che usiamo per raccontare questi fatti sono parte del problema. Finché continueremo a parlare di “delitti passionali”, “tragedie della gelosia”, “amori malati”, continueremo a occultare la radice sociale e culturale del fenomeno.

Come ha scritto la sociologa Lea Melandri, “la violenza non nasce dal troppo amore, ma dall’incapacità di riconoscere l’altro come altro”.

Pamela Genini è morta perché aveva detto no. Ma quel “no”, anche se soffocato, resta un atto di resistenza simbolica. Raccontarlo non è pietà, è politica. Raccontarlo bene, senza cedere ad alcuna tentazione di addurlo a elemento di corresponsabilità della donna nel reato subito, è dovere deontologico di ogni giornalista, nel rispetto del Manifesto di Venezia che l’ormai lontano 25 novembre del 2017 fu promosso dalle commissioni P.O. della FNSI e dell’Usigrai ed elaborato da GiULiA giornaliste, coraggiosa associazione per cui la scrivente siede con orgoglio e convinzione in direttivo nazionale.

“Il femminicida ha le chiavi di casa” gridano le ragazze in piazza ogni 25 novembre: la chiave duplicata di nascosto, con cui Soncin è entrato nella casa della vittima, è la vera protagonista simbolica di questa tragedia. In essa si condensa la pretesa di accesso permanente, il diritto millenario di entrare — nel corpo, nella vita, nello spazio della donna — senza chiedere permesso. Spezzare quella chiave, nella sua dimensione culturale è il compito sociale che ci attende.

Perché la violenza maschile non si combatte solo con le leggi, con l’inasprimento delle pene, con i deterrenti ma con un mutamento di linguaggio, di educazione, di immaginario; solo allora, forse, la stanza di Virginia Woolf potrà finalmente essere chiusa — e aperta — da chi ne detiene davvero il diritto, la donna che la abita.

Eleonora De Nardis è in libreria con “Sei mia. Un amore violento” (Bordeaux) 

 


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