Innumerevoli donne hanno ispirato nei secoli la poesia erotica maschile, ma pochissime di loro hanno scritto per sé stesse, rivolgendosi al proprio immaginario, potremmo contarle sulle dita di una mano.
Al liceo con i lirici greci leggevamo i frammenti di Saffo, fremendo ai suoi fremiti. Una volta che misi piede in Grecia mi spinsi persino per devozione alla Rupe di Leucade, sull’orlo di quell’abisso a strapiombo sul mare in cui la leggenda vuole che la fanciulla di Lesbo si fosse gettata a causa di un amore non corrisposto.
La dolce poetessa con i rari versi giunti fino a noi, poetando di sé e della passione che la travolge senza scampo, ha scardinato una porta che nessuno sarebbe stato più in grado di richiudere.
«E tutta molle d’un sudor di gelo,
e smorta in viso come erba che langue,
tremo e fremo di brividi, ed anelo
tacita, esangue.»
In preda al sentimento amoroso, Saffo canta il piacere sessuale svelandone i sintomi, e ancor più il mistero che domina incontrastato i cinque sensi al momento dell’orgasmo:
«Un fuoco sottile affiora rapido alla pelle,
e ho buio negli occhi e il rombo
del sangue nelle orecchie.
E tutta in sudore e tremante
come erba patita scoloro:
e morte non pare lontana
a me rapita di mente.»
Stiamo parlando di sette secoli prima di Cristo, ovvero 2700 anni addietro. Qualcuno può affermare che l’essere umano sia cambiato?
Eppure la voce femminile dopo quell’esordio fulminante tace, ammutolita, imbavagliata dalla predominanza del sesso forte.
Di quante donne ricordiamo la testimonianza di voluttà che non sia camuffata sotto un prudente velo misticheggiante?
Mosche rare. Nicola Gardini ci ripropone la giovane Sulpicia, fanciulla sfrontata del I secolo d.C.:
«Mi piace la mia colpa e mi disgusta/ mascherarmi da brava signorina. // Si dica invece: è degna e sta con degno».
La ragazza col suo caratterino rifiuta la triste condizione femminile per cui il sesso è macchia, e fiera, la riscatta:
«L’amore infine è giunto, e rivelarlo// mi dà meno imbarazzo che sentirmi// dire che lo celassi. Vinta dalle// mie Muse, Venere me l’ha portato// e messo tra le braccia.»
Ma siamo ancora nell’antica Roma, poi cosa accade? Perché tanto silenzio?
Mi torna alla mente Francesca, messa tra i lussuriosi nel V Canto della Divina Commedia, che attraverso la voce di Dante riferisce in prima persona la passione travolgente per Paolo, giovane fratello di Gianciotto Malatesta:
«Mi prese del costui piacer si forte, che, come vedi, ancora non m’abbandona».
Non ricordo altre figure femminile che abbiano parlato di amore carnale. Vittoria Colonna, marchesa di Pescara, poetava il suo innamoramento platonico per un distratto Michelangelo Buonarroti. Emily Dickinson, rimane insuperabile nella sfera spirituale, sebbene taluno vi scorga un sottotesto simbolicamente allusivo, sia pure dentro un rigido recinto. Decisamente più esplicita Frida Kahlo, calata in un amore struggente e viscerale. Le poesie di Colette, come è stato giustamente sottolineato, vanno rintracciate piuttosto nella sua prosa così carica di ebbrezza dei sensi. Uno sguardo obliquo mi svia a capriccio verso Tamara de Lempicka, pittrice e non poetessa, ma i cui dipinti sono così palpitanti di un sesso goduto da divenire davvero poesie visive. E poi in Italia c’è stata Alda Merini, autentica, preziosa apripista.
Nonostante tali scarne premesse ho sempre pensato che la poesia sia profondamente femmina, come indica il sostantivo di genere femminile. E mi convinco che ancora più femmina sia la poesia erotica. Le Muse delle arti non a caso sono femmine e la poesia ne vanta ben due: Calliope, Musa della poesia epica e dell’eloquenza, e Erato, Musa della poesia amorosa o erotica.
Restiamo a quest’ultima, che ora ci regala l’autentica sorpresa di una sua alunna. Tra le donne che sono uscite dall’ombra per disserrare lo scrigno dei tesori – dai quali restiamo invariabilmente incantati – ecco Graziella De Cillis con la sua raccolta di versi che sfoggia un titolo inequivocabile: Emozioni in rosso.
Ho letto le sue liriche una di fila all’altra, senza fermarmi, fino a quella che chiude la raccolta, ispirata all’indovinatissimo dipinto che esplode in copertina, sgargiante di papaveri aperti e sfogliati. Se “una rosa è una rosa una rosa” (verseggiava Gertrude Stein, e non c’è altro da aggiungere), il fiore dell’oppio non è certo da meno nella esplicita e suasiva metafora.
Finalmente un libro di poesie vitale, carnale, sensuale, attraversato da una inevitabile vena di sofferenza che l’amore e il sesso recano indispensabilmente con sé, ma privo per fortuna della consueta crepuscolare querimonia depressiva o del compiaciuto vittimismo muliebre.
La poetessa pugliese vive la vita come una favolosa, generosa cornucopia in cui affondare le mani e il pensiero, un magico inesauribile calice sacro ricolmo di palpiti, emozioni, velati o ostentati piaceri, attese spasmodiche, abbandoni dionisiaci.
Il suo verso è curato, ma non al punto di raffreddare la pulsione, al contrario, proprio al fine di modellarla meglio, servirla al calor bianco: la esaspera, la esalta, la leviga in un incontenibile amplesso estatico che è carne e verbo, dalla parola che si fa corpo e viceversa.
Sfioriamo insieme con dita leggere i tasti più sensibili di alcune sue liriche.
Graziella possiede una natura organicamente amorosa e pertanto oblativa:
Il tuo corpo,// il giaciglio// dove morire// e mille volte rinascere.
Sappiamo per esperienza che la creatività si avvale della medesima energia in ogni campo ed espressione: l’atto creativo, comunque esercitato, comporta inderogabilmente esiti parossistici, un’acme intrattenibile, l’orgasmo: creare, in senso poetico e amoroso conduce infallibilmente al medesimo climax, gli atteggiamenti sono fungibili, possono scambiarsi i ruoli, e a volte si confondono. Si tratta di un flusso d’amore che contiene la medesima impronta divina, la scintilla che l’Onnipotente trasfonde in Adamo toccandogli l’indice con l’indice.
Sentenziava Moravia:
“Si può far l’amore senza amare, ma non si può amare senza far l’amore”.
L’amore è visione, rappresentazione, esibizione:
Dipingimi //
col tratto della notte,//
burrosi profili //
liquidi al tratto.//
…..
Calda al tocco//
del folle pennello.//
I versi sono inequivocabilmente pervasi di metafore scoscese, brucianti: basteranno poche citazioni, e a volte è sufficiente anche soltanto il titolo.
Spogliami//
come al vento// i papaveri a maggio//
Lei si rivolge immancabilmente al proprio amato con immagini leggiadre e mai elusive dell’urgenza invocata; la sua poesia è anche molto visiva per chi possiede l’inclinazione e il gusto di coglierne i tratti pittorici oltre che musicali:
… e resto
Resto qui// a lisciarmi i petali// di fiore reciso.
Graziella si diletta in slanci priapei:
Vestale
Amami.// Vivo in un corpo// in te dischiuso.// Sfioro il germoglio// dell’erto tuo ramo,// perle d’essenze// sfuggono ai seni.//. Gode l’istante// il caldo meandro// ascoso alla luce.
La femmina offre per intero il proprio essere, la propria segretezza:
Vorrei dormirti dentro.
Cullarmi al suono// dei tuoi ritmi.// Sentirmi vita// nella tua vita,// scorrere calda// e fluida linfa,// giungerti al cuore.
Si lascia frugare dove mai nessuno si è spinto:
Amo
Amo l’idea di te.// Quando risplendi nel buio// col tuo silenzio,// e scavi a mani nude// nel fango della mia anima.
Si annulla inerme alla natura che non conosce indugi né riserve:
Sono fianchi// i piani scoscesi// e vulcani i seni// ridesti al tatto.// Sentieri erbosi// e cupe foreste// s’aprono al caldo// di dolci malìe.
Assapora ogni frutto da tempo non più proibito:
Ciliegi
Sfogliami// come brezza// i ciliegi d’aprile.// Di nodosi rami,// fra rugose fronde// verdi di linfa,// cercami,// rubro frutto caldo di sole.
E si dona senza limiti o riserve abbandonandosi alla sua indole con voluttà:
Dammi l’inferno,// sarò la tua pace. …
E giungiamo così all’ultima lirica, un fiammeggiante arabesco sinestetico:
Emozioni in rosso
Rossi papaveri// colmano l’aria// d’ardite emozioni,// dal buio riavute.// E sfumano fiati,// labbra e affanni// su tumidi steli// d’ombre fugaci.// Cespi rinfusi// di flussi rubini// erti rinascono.// Chetano d’oppio// fulvi bagliori// di madida pelle.// Donami petali// di rubro velluto…// D’effluvi svanita// da notte risorgo// fra lembi di luna.//
Lo so, il mio è un procedimento scorretto, sto creando di proposito un gorgo per il lettore, un tranello, scegliendo fior da fiore, con plateale malizia, i versi più avvampati di allusioni sessuali; non si dovrebbe mai separare una sola riga dal contesto poetico, ma il mio scopo è di incitare ognuno a compiere quel passo avanti, indispensabile a scavalcare senza resistenze l’orlo del crogiuolo ad alta incandescenza, persuaso come sono che Graziella con il suo carme di autentico amor carnale, ci attrae in un salutare antichissimo nirvana.
L’autrice con estro originale sa riversare sulla pagina, come poche altre, turgide poesie passionali, ricolme di uno slancio incontenibile, talvolta ornate persino di retorica classicheggiante. Utilizza il verso come un ritorno all’originaria, millenaria lezione del Cantico dei Cantici, urla ai quattro venti, senza doversi nascondere, l’immensa gratitudine alla vita e a Dio.
Nascondersi poi da che cosa, è l’Eros che crea la vita. E noi tutti ne siamo il frutto inestimabile.
Addomesticamenti, censure polverose, tremebonde prudenze, ipocrisie? A che pro. Sarebbero insensate. Prendo ancora una volta a prestito un commento di Nicola Gardini, che ammiro incondizionatamente, il quale chiosando gli epigrammi erotici della Antologia Paladina ci avverte:
“A ognuno il suo destino. A ognuno la sua foia, che, se smettiamo finalmente di ragionare con il paraocchi del perbenismo, ci apparirà la più alta forma di ascesi che l’essere umano abbia la possibilità di conoscere».
Ed eccoci al punto: l’amore come ascesi. Possiamo soltanto rallegrarci con Graziella De Cillis per il coraggio, la franchezza, l’energia della sua ispirazione; esserle grati per l’esempio virtuoso, spregiudicato, che ha voluto donarci, rendendoci edotti su una verità incontestabile: le donne sanno nascondersi per sopravvivere, ma da sempre sono capaci di farsi valere, anche contro gli innumerevoli ostacoli, abusi e inganni a cui sono state e continuano ad essere esposte e sottoposte senza riguardo.
Il compito dell’artista, del poeta, è quello di spendere senza risparmio la moneta d’oro, il “talento” che gli è stato affidato, e di testimoniare a ogni costo, con assoluta abnegazione ciò che è chiamato a svelare. E Graziella De Cillis onora al meglio il suo altare.
Avvilire la ‘scrittura’ è un delitto. L’arte, come il sogno, deve poter compiere il suo eterno miracolo di donare consapevolezza e libertà a ogni essere umano che abita questa Terra. Graziella lo sa, e procede con l’impeto di una profetessa, imperterrita nella sua vocazione, vorrei dire nella sua missione, che traduce apertamente nell’incipit, quando dedica la sua opera:
Agli uomini della mia vita. Mio marito, i miei figli.
Una dedica luminosa e illuminata, che meriterebbe un riconoscimento speciale, un premio a parte, ancora da inventare, per la sua stupefacente, innocente sincerità.
Federico Fellini presentando alla stampa nel lontano 1965 Giulietta degli spiriti, la sua immaginifica incursione nei meandri dell’inconscio femminile, aveva affermato:
«Nessun uomo sarà libero finché non sarà libera anche l’ultima donna»
