Nel numero di maggio 2025 del mensile “Il Senso della Repubblica”, in imminente uscita, un editoriale di Anna Stomeo induce a riflettere sul tema dell’omologazione nel tempo di un neo-neoliberismo radicato “al punto da inglobare, in modo onnivoro, e con la benedizione della finanza, vecchi e nuovi autoritarismi”. Politica o economia? Si chiede l’autrice pensando alle riflessioni di Marx, a quelle, più recenti, ma comunque remote, di Pasolini, di Karl Polany, per planare su testi “contemporanei” come Il capitale nell’antropocene, di Saitō Cōhei, fino al recentissimo Marx a Wall Street. Il capitalismo finanziario e le sue truffe, di Diego Fusaro. Il capitalismo si sta dunque rivelando il “mostro occulto che si riproduce in specchi immaginari come nel mito greco del Minotauro riletto da Friedrich Dürrenmatt”, oppure costituisce addirittura un Leviatano di hobbesiana memoria?
In questa sede simili interrogativi inquietanti li spendiamo come premessa essenziale in merito al “che fare?”, di fronte al silenzio “istituzionalizzato” attorno ai quesiti referendari del prossimo giugno.
Certo, siamo in un ambito estremamente delimitato e angusto rispetto all’immensità della dinamica “globale” del capitale, alle guerre e agli eccidi che devastano il pianeta, ai problemi ambientali, ai continui sconvolgimenti finanziari, col loro carico di ingiustizie sociali, disuguaglianze, discriminazioni capaci di intaccare concetti e diritti ritenuti saldi e acquisiti fino a qualche anno fa come la democrazia, la libertà, l’autodeterminazione e perfino il libero arbitrio.
Poca cosa dunque i referendum italiani al cospetto del quadro internazionale che ci avvolge. Ma intanto esaminiamoli, se non altro perché potrebbero riguardare proprio alcuni di quei diritti che in Europa e in Occidente sembrano tramontare senza che si alzino troppi pianti o voci di dissenso:
- il ripristino della possibilità di reintegro nel posto di lavoro per i dipendenti licenziati senza giusta causa;
- la eliminazione del limite massimo all’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori delle piccole imprese;
- la limitazione dell’abuso dei contratti a termine, per contrastare le diffuse forme di precarizzazione;
- la responsabilità “limitata” delle imprese negli appalti, che riduce le tutele dei lavoratori in caso di infortuni sul lavoro;
- la proposta di ridurre da 10 a 5 anni il periodo minimo di residenza necessario per i cittadini extra-UE per ottenere la cittadinanza italiana.
Sono temi che, in apparenza, non risultano in stretta relazione con la premessa che abbiamo proposto. I quesiti, in realtà, toccano il vissuto di donne e uomini che lavorano in forma precarizzata, o immigrati che si trovano a vivere in condizione di privazione dei diritti fondamentali. Milioni di persone artatamente frammentate, ridotte al ruolo di “minoranza”, sradicate e divise, senza che alcuna forza politica riesca, possa, o voglia dar loro voce. Moltissimi di costoro, direttamente interessati, oppressi da anni di delusioni, col disincanto nel cuore, non si recheranno neppure alle urne, convinti che i 10 minuti di partecipazione al rito del voto teleguidato dagli algoritmi e dai media dei “potenti” non valgano più nulla.
Non è un problema italiano: questa sensazione, diffusa come un’epidemia ormai in tutte le cosiddette democrazie occidentali, costituisce il corollario e l’alimento del meccanismo che porta al governo oligarchie non democratiche e, indirettamente, l’1% della popolazione mondiale a detenere più ricchezza e più potere del restante 99%. Non esistono precedenti storici paragonabili, poiché nelle epoche passate situazioni analoghe si verificavano certo su regni o imperi; ma è la prima volta che, su scala planetaria, miliardi di individui vengono suddivisi, catalogati e imbrigliati in uno status da cui è arduo evadere: poverissimi a rischio quotidiano della vita per inedia e mancanza di cibo; poveri cronici che riescono appena a soddisfare i bisogni primari; classi “medie” declassate a livelli di miseria inimmaginabili fino a qualche decennio fa; classi ancora benestanti, ma ormai costrette anch’esse a bivaccare sull’orlo della povertà e dunque con “ben altri” problemi rispetto al tema dei diritti e dei doveri di partecipazione.
All’insegna dell’ondivago mito della crescita, può naturalmente capitare di “transitare” da una categoria all’altra, di morire meno per fame ma restando denutriti o comunque racchiusi fra i ceti meno abbienti. Resta però il dato ineludibile della progressiva concentrazione della ricchezza, del sapere, del potere. Questa dinamica accentratrice avvolge le persone in un misterioso malessere fatto di totale senso di impotenza, analfabetismo “di ritorno”, confusione da annegare, almeno nei luoghi dove permane un certo benessere materiale, con droghe, alcool, riti di eterne apericene e, con addosso la vessazione di indebitamenti perenni, sistematicamente rivitalizzati dai consumi indotti: incapaci di soddisfare bisogni, ma provvidenziali per crearne sempre di nuovi.
I sistemi oppressivi oggi non avrebbero alcuna necessità di reprimere le rare sacche di dissenso o di temere l’esito di una votazione: basta loro coltivare le paure, favorire quotidianamente, mediaticamente, una sensazione di smarrimento, per garantire lo stato di servaggio perpetuo in una condizione da “sala della pallacorda” declinata a livello universale.
Eppure, per sancire il dato di fatto, si ritiene perfidamente utile anche indurre alla rinuncia del “libero e democratico” esercizio di diritti e doveri elementari, come quello del voto, peraltro già ampiamente spuntato come “arma delle masse” grazie alle inaudite potenzialità delle nuove tecniche di persuasione (occulta). Questa condizione, è bene saperlo, non sarà però eterna. Evolverà ancora: verso ulteriori, più drammatiche, catastrofi, o verso inaspettati cambiamenti.
Tornando ai referendum, siamo dunque al paradosso di sentire il richiamo alla diserzione in nome della libertà, accompagnato dall’immancabile ghigno di chi crede di saperla lunga sul funzionamento della società contemporanea o, almeno, sull’arte di trarre qualche briciola di beneficio compiacendo i potenti turno. Ma la domanda da porre riguarda l’avvenire: quali saranno gli orizzonti successivi? Quale etica e quali strategie dopo il riarmo, la devastazione dell’ambiente, l’istituzionalizzazione della precarizzazione e della solitudine? Dopo i muri alzati con i fili spinati e con i dazi per controllare i flussi delle risorse finanziarie, delle merci e delle persone? Il voto referendario in un paese di medie dimensioni come l’Italia forse non costituirà una cartina di tornasole, ma qualche risposta potrebbe tuttavia fornirla, almeno in tema di partecipazione, di volontà di assumersi le responsabilità. Dunque, la logica del cinismo vuole che sia meglio predicare l’astensionismo per prevenire risposte che potrebbero essere scomode.