(Gaza) Palestina – Storia dell’ultimo crimine frutto delle colonizzazioni occidentali

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Quando ho deciso di scrivere quest’articolo, mi sono chiesto se non fosse banale. Di fronte all’orrore a cui noi stiamo “vigliaccamente” assistendo, sarebbe stato logico che l’indignazione prevalesse; non è così, o almeno non per tutti. Invece tutti, noi occidentali, per la maggior parte “pretestuosamente” e a convenienza cristiani, in questo dramma, timidamente siamo in grado solo di dire: “poveri bambini”. Trovo questo lassismo meritevole di disprezzo, il più crudo disprezzo.
A Gaza, e nella Palestina in generale, si sta consumando un vero e proprio genocidio, le cui origini storiche ci riportano al passato coloniale del quale noi europei persino ci vantiamo. Quindi, confermando la mia indignazione, che non vale nulla se non riesco nemmeno io, come singolo individuo, a far qualcosa, ho pensato di raccontare, in chiave storica e sociologica, la storia recente del colonialismo in Palestina, saltando indietro nel tempo, solo per un attimo. Ci imbatteremo, in questa mia breve ricostruzione, in tematiche che attengono, tra l’altro, al nazionalismo, al colonialismo, alle questioni interreligiose, al terrorismo, alle deportazioni e alla resistenza.
Sia ben chiaro sin da subito: considero Hamas un gruppo terroristico crudele e assassino, ma le mie critiche finali non riguarderanno solo Hamas. Per logica, parto dalla Palestina, ovviamente in breve, partendo dal 1517, periodo ottomano, quando la Palestina faceva parte dell’Impero. Partiamo dal dire che da circa un millennio era abitata da musulmani. La presenza di minoranze ebraiche e cristiane, al netto della normale conflittualità, non impediva una convivenza, non sempre pacifica, ma tollerata dalle diverse fazioni. Non era definita come nazione, ma sociologicamente e culturalmente si può parlare di identità palestinese che si stava formando.
“Cadde Sansone e tutti i filistei.”

Chi non conosce questa frase! Ma da qui si deve partire per capire il significato di oggi: corsi e ricorsi della storia (cit. G.B. Vico). La Palestina ha una storia sin dall’inizio tormentata. Risale al popolo che anticamente si era insediato nell’area, i Filistei, probabilmente provenienti dall’Anatolia o dall’Egeo. Parliamo del XXII secolo a.C., e proprio nell’attuale Striscia di Gaza. L’attuale denominazione del popolo palestinese si deve ai romani e quindi al latino, che passa da Peleshet in ebraico a Palaistínē in greco, e quindi a Palaestina in latino. Fu Adriano, per umiliare e tentare di cancellare la memoria della loro sovranità in quell’area degli ebrei, che adottò questo nome nel II secolo d.C., da Iudaea a Syria Palaestina: un chiaro atto politico.
Ma veniamo a tempi più recenti. Verso la fine del 1800, Theodor Herzl fondò un movimento politico, al quale attribuisco la stragrande responsabilità di quello che sta accadendo, che aveva come obiettivo l’idea di fondare uno Stato ebraico negli spazi geografici occupati, come abbiamo visto, dai Filistei prima e poi dai palestinesi islamici. Iniziò, quindi, un colonialismo imprenditoriale. Ebrei ricchi, specialmente russi, tedeschi e polacchi, iniziarono a “fagocitare” terreni di palestinesi spesso assenti a causa delle ripetute migrazioni del XIX secolo. Le violente espropriazioni, sin da quei tempi, innescarono forti tensioni tra contadini arabi e nuovi proprietari ebrei. Puro colonialismo, giustificato da insensate ragioni bibliche.
Insensate perché il diritto ci pone di fronte all’accettazione di mutazioni della geografia politica, spesso ottenute attraverso le guerre, che necessariamente ci obbligano ad accettare le influenze politiche in determinate aree. Quindi, il diritto internazionale riconosce lo Stato di Israele, come vedremo dopo. Ma la stessa risoluzione porta un titolo emblematico: “Future government of Palestine” , futuro governo della Palestina.
Furono quindi gli effetti dell’incapacità dei britannici, che amministravano quel territorio dal 1920, che indussero le Nazioni Unite ad intervenire con la formazione di un apposito comitato (United Nations Special Committee on Palestine), il quale alla fine giunse alla conclusione che bisognava creare due stati indipendenti, con Gerusalemme, compresa Betlemme, che doveva rimanere sotto tutela internazionale. Agli islamici, nonostante fossero molto più numerosi degli ebrei, venne assegnato il 43% del territorio, mentre agli ebrei il 56% (il rimanente 1%, come abbiamo visto, sarebbe dovuto passare sotto il controllo internazionale).
Tale favoritismo deriva da una sorta di captatio benevolentiae derivata dai postumi dell’Olocausto, ma soprattutto dall’influenza degli Stati Uniti che spinsero in quella direzione. Questa risoluzione non ha funzionato e oggi ci troviamo in questa penosa, dolorosa situazione soprattutto perché la risoluzione non aveva molta forza sul piano giuridico, essendo solo una “raccomandazione”, che prevedeva l’accettazione delle parti. Si prestò, quindi, ad essere contestata.
In primo luogo, ci fu il netto rifiuto – peraltro comprensibile – del mondo arabo (io preferisco chiamarlo per correttezza islamico) e palestinese, ad accettare la ripartizione, a loro sfavorevole. I palestinesi si erano visti assegnare il 43% del territorio, pur essendo oltre il 65% della popolazione. Gli islamici si appellavano al principio di autodeterminazione dei popoli, pietra fondamentale del diritto internazionale, sancito dall’art. 1, paragrafo 2 della Carta delle Nazioni Unite del 1945, successivamente ribadito nel 1966 (Patti internazionali sui diritti civili, politici, economici, sociali e culturali), oltre alla risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1970 (2625).
Ne scaturì la prima guerra civile arabo-israeliana (novembre 1947 – maggio 1948). A questo si aggiunse il repentino ritiro dei britannici, il cui colonialismo lasciò, pertanto, un pericoloso vuoto sia istituzionale che di sicurezza nella regione. Sfruttando questa situazione, gli ebrei accettarono la risoluzione e il 14 maggio 1948 proclamarono unilateralmente lo Stato di Israele, ma arrogandosi il diritto ad espandersi anche in quegli spazi che erano stati assegnati ai palestinesi. Sembra questa una cosciente premeditazione dei crimini che poi avrebbero commesso.
Ne seguì l’improvvida decisione degli Stati islamici dell’area – Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq – di innescare la guerra contro Israele (1948/49), ma persero, dando il pretesto agli ebrei di conquistare più spazio. La Palestina non è mai stata considerata pienamente come Stato arabo, per ragioni storiche e religiose; quella popolazione è rimasta, a mio parere, ancorata alla cultura mediterranea più che alla cultura araba, pur essendo passati sotto il dominio arabo dal 636 d.C. con la sconfitta dei bizantini. L’anno dopo cadde pacificamente Gerusalemme.
Gli islamici vi rimasero fino al 1917, fatta eccezione per i quasi 200 anni delle Crociate (1099–1291), quando l’Impero Ottomano perse la Prima guerra mondiale. Nel frattempo, nessuno Stato arabo istituì mai lo Stato di Palestina. Durante la colonizzazione della Palestina da parte dei britannici, questi favorirono l’immigrazione degli ebrei, che crebbero moltissimo in quel periodo. Fu proprio degli inglesi, nel 1917, con la Dichiarazione Balfour, l’idea di creare una “casa nazionale per il popolo ebraico” in Palestina.
Da quel momento non c’è stato un minuto di pace per il popolo palestinese, anche a causa della dura repressione delle rivolte arabe da parte dei colonizzatori europei. Nel 1948, il neonato Stato di Israele iniziò una sorta di pulizia etnica, nota come Nakba (catastrofe). Vennero distrutti oltre 400 villaggi arabi, più di 750.000 palestinesi furono costretti ad una drammatica diaspora. Molti di questi vennero spinti proprio verso la Striscia di Gaza, allontanati dai luoghi di nuova conquista.
Le violenze continuarono nella cosiddetta “guerra dei sei giorni” del 1967. Israele occupò militarmente Gaza, la Giordania e Gerusalemme Est. Ne seguirono nuove espulsioni, demolizioni, confisca delle terre e conseguente crescita degli insediamenti ebraici ultraortodossi.
La Striscia di Gaza, prima dello scorso ottobre, poteva essere considerata come una sorta di prigione dove erano reclusi tutti i suoi residenti, compresi i bambini. Oggi la situazione è ancora più grave: un inferno, dove si sta consumando un nuovo genocidio sotto gli occhi indifferenti di quasi tutta la comunità internazionale, incapace di reagire ad un evidente crimine, che ha l’unico scopo di una nuova forzata diaspora dei palestinesi, a beneficio di nuovi insediamenti ebraici, attraverso i quali generare nuova ricchezza per gente come Trump.
In questo mio articolo non ho mai nominato il capo del governo israeliano; l’ho fatto apposta, perché questo soggetto ritengo sia impronunciabile, su cui pende un mandato di cattura internazionale per crimini di guerra.
In conclusione, credo personalmente, anche attraverso alcuni dati analizzati, che la barbarica incursione da parte di Hamas – ripeto, per me vili assassini – non poteva non essere prevista. Molti di noi la pensano come me, e parlando con una persona ebrea, nata e vissuta in Israele, ho avuto la conferma che anche tanti ebrei la pensano così.
Di fronte ad episodi immani come questi, la condanna non deve lasciare spazio ad ambigue altre giustificazioni, come sento dire da molti politici. Crimini del genere – quello di Israele, come quello di Hamas – avrebbero dovuto scatenare una reazione del mondo intero nell’immediatezza. I bambini palestinesi non hanno più tempo: vanno salvati.
È ora di spiegare al governo di Tel Aviv che sappiamo bene la differenza tra sionismo e semitismo, ed è ora che la smettano di invocare strane manovre contro il popolo ebraico e di considerare tutti noi antisemiti, non lo siamo affatto. Il loro penoso “piagnisteo” non ha più senso, perché nessuno di noi ha mai dimenticato e mai dimenticherà la tragedia dell’Olocausto, compiuto dai nazisti e dai fascisti italiani, anche con l’autorevole firma dell’ex nostro indegno re.
Dedicato ad Ilaria Alpi, senza dimenticare Miran, oggi, 24 maggio 2025 avrebbe compiuto 64 anni.


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