Ferri, la Diaz e noi

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Continuerò a ripeterlo finché mi sarà consentito scrivere da qualche parte: non dobbiamo sbagliare fascismo per non sbagliare anti-fascismo. E il fascismo che viene imputato all’attuale esecutivo, mi spiace dirlo, ma è quello sbagliato. Meloni con Mussolini, Pavolini, Farinacci e camerati vari, infatti, non c’entra nulla. Personaggi del genere possono costituire un’ispirazione ideale per una parte della base e anche del gruppo dirigente di Fratelli d’Italia, in nome del compiacimento fascistoide per i saluti romani, le faccette nere, inni e stornelli vari di una stagione esecrabile, ma non è quello il fondamento del melonismo attuale. Quando Meloni ha cominciato a far politica, difatti, Almirante era già morto da anni. Il punto di riferimento dell’attuale esecutivo era e rimane Genova, con il suo carico di sangue e di dolore e le sue condanne in via definitiva per gli orrori della Diaz e della caserma di Bolzaneto. Ad esempio quella ai danni di Filippo Ferri (nel 2001 capo della Squadra mobile di La Spezia), da poco nominato questore di Monza, condannato dalla Cassazione il 5 luglio 2012, in quanto – come scrissero i giudici del Tribunale di Genova – “è al dottor Filippo Ferri che vanno sostanzialmente riferiti il momento decisionale e l’elaborazione tecnico-giuridica relativi alla scelta di contestare agli occupanti il reato di associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio”. La “macelleria messicana”, frase pronunciata da Michelangelo Fournier, all’epoca vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma, le molotov introdotte ad arte per giustificare l’irruzione degli agenti e le sue conseguenze, i tentativi di ostacolare in tutti i modi le indagini dei PM Zucca e Cardona Albini, le accuse tremende rivolte inizialmente alle parti offese, le assoluzioni in Primo grado, le condanne in Appello, infine la Cassazione: tutto dimenticato.
Non abbiamo nulla contro la persona di Ferri né pensiamo che debba pagare solo lui, dato che tutti gli altri hanno fatto carriera (e che carriera!) e sono stati ampiamente ricompensati e protetti dalla stampa, dalla politica e da quel vasto fronte che ha prosperato sull’oblio dell’opinione pubblica. Ci domandiamo soltanto che Stato sia quello si comporta in questo modo, che non sa fare i conti con il proprio passato, che va contro delle esplicite indicazioni della Corte di giustizia europea, che non applica, di fatto, il reato di tortura, di cui pure, assai tardivamente, si è dotato, e che, così facendo, viola il concetto stesso di dignità umana. Ce lo chiediamo a prescindere dal colore del governo, dalla nomina di Ferri e dalla sacrosanta indignazione che ne è derivata in alcuni ambienti.
L’importante, come abbiamo sempre detto, è unire i puntini e prendere atto di chi sia davvero il gruppo di potere che guida attualmente il nostro Paese, quali siano i suoi riferimenti e perché vari determinate leggi, ad esempio il decreto contro i rave party e le norme repressive contro la gioventù contestatrice, da sempre pungolo insopportabile per chiunque abbia una certa concezione dei rapporti di forza.
Ci hanno molto colpito, in conclusione, le parole del rapper ravennate Moder: “Carlo sdraiato a terra non è solo l’emblema di una generazione, forse nemmeno di un movimento, credo che in quegli anni sia stato strappato il tessuto sociale di questo Paese. Da lì l’individualismo è diventato una religione e il patrimonio di movimenti è venuto meno”. Carlo Giuliani, Piazza Alimonda, via Tolemaide, Corso Gastaldi, Corso Italia e le già menzionate Diaz e Bolzaneto: è la cartografia dello strazio di una città e di un Paese che da allora non si è mai ripreso. Il silenzio, il vuoto, l’assenza e una generazione intrappolata nello smartphone o comunque, anche quando è motivata e piena di passione, priva di luoghi nei quali esprimersi: questo è il vero crimine, ben più grave della stessa Diaz, l’essere passati dai giovani che mangiavano insieme le ciliegie e sognavano a occhi aperti, anche inseguendo autentiche utopie, ai giovani colti e preparati che non ci credono più, e non si può dar loro torto. Mutuando i versi finali di “Itaca” di Kostantinos Kavafis, questo è “ciò che Genova vuole significare”. E la strada per la verità è la giustizia è ancora tutta da percorrere.


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