“Fratellino” mi chiamava ironicamente Lucio.
Il nostro rapporto era veramente quasi una parentela. Io giovane cronista milanese ero stato catapultato nel 1990 a New York per dare una mano al supercorrispondente del Tg3 travolto dal superlavoro per la cronaca della guerra americana nel golfo.
Ero preoccupatissimo: non solo la paura di non essere all’altezza ma il timore per la convivenza quotidiana al lavoro con un “mostro sacro”, il pericolo di incomprensioni, gelosie così frequenti nel nostro ambiente.
Come mi sbagliavo. Quei primi mesi e poi gli anni successivi a New York fra i “maniscos” (c’era anche suo figlio John) sono stati la più bella esperienza umana e professionale della mia carriera.
Lucio non era solo un fiume in piena di idee, iniziative, battaglie ma era un pila atomica di calore umano, simpatia e ironia. Casa sua era un porto di mare dove si incontravano persone di ogni tipo, dai giornalisti agli artisti, agli intellettuali newyorchesi e non.
Lucio era un senior correspondent. Aveva lavorato al fianco di figure come Ruggero Orlando (mitici i racconti delle loro trasferte a Cape Canaveral) aveva giocato a football con Bob Kennedy, era uno dei regolari alle partite di poker con Jas Gawronsky e Ugo Stille.
Non dimenticherò mai la sera del mio arrivo a New York, ancora rimbambito per il fuso orario, tutti al ristorante Gino sulla Lexington assieme a Occhiuzzi del Corriere e a tutti gli altri. Assieme a John e alla infaticabile Simonetta Cossu (che sarebbe diventata con lui vicedirettrice al Liberazione ) ho imparato cosa significa lavoro di squadra.
Incapace di gelosie, generoso fino all’autolesionismo Lucio ha dimostrato fino all’ultimo cosa vuol dire amare la vita. Mi sento in colpa per non averlo frequentato di più negli ultimi tempi forse impaurito dai suoi giudizi sempre sferzanti sul giornalismo di oggi (incluso qualche volta anche il mio).
Nell’abbracciare tutta la sua famiglia, John e Francesca, posso solo dire che sono orgoglioso di aver fatto un tratto di strada assieme a un uomo come Lucio, come dicono gli americani “larger than life”.
Un abbraccio, fratellone.
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