Un intervento coraggioso quella di Emma Ruzzon, presidente del consiglio della studentesse e degli studenti alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico all’Università di Padova.
Un discorso che ha riguardato le condizioni degli studenti, dalle difficoltà economiche alle ansie per il futuro al benessere psicologico. Ha criticato le politiche che limitano l’accesso al sapere e creano disuguaglianze, menzionando i tagli ai finanziamenti universitari e il DDL Bernini, che precarizzano ulteriormente la situazione degli studenti e dei lavoratori del settore. Ha espresso preoccupazione per i tentativi di controllo su docenti, studenti e lavoratori da parte dei servizi segreti. Ha esortato le istituzioni a mantenere l’università come luogo di confronto e a contrastare i tentativi di limitare la libertà di insegnamento. Verso la fine del suo intervento, in un gesto simbolico, si è tolta la camicia nera che indossava, affermando: “Oggi ho questa perché l’occasione richiede formalità, ma se proprio serve parlare il linguaggio dei simboli facciamo che me la tolgo: credo che molti, in questo Paese, dovrebbero sfilarsela per davvero”. E infine l’appello agli studenti: istruiamoci, agitiamoci, organizziamoci.
“Più di otto secoli di storia sono un’eredità importante, ma otto secoli di storia non possono restare in una teca: vanno vissuti e interrogati nel presente. Provate a fare questo esercizio: vi chiedo di guardare il mio compagno di corso, che deve tornare dai suoi perché non può permettersi una stanza. Ha lavorato senza contratto, finché non l’hanno lasciato a casa. Vi chiedo di guardare Marta, che mentre butta la pasta chiede alla sua coinquilina se ha visto l’ultimo intervento di Trump sull’invasione della Groenlandia, le ultime notizie sulla guerra, i video del disastro di Valencia. Vi chiedo di guardare Alice, chiusa in stanza ogni pomeriggio, non riesce nemmeno a mangiare. Evita tutti: basta un “Come va con l’esame?” per farla crollare. Vi chiedo di guardare Karem, che non riesce a iscriversi all’Erasmus come me perché è italiano, ma non per lo Stato.
Chiedetevi cosa sentireste, se un giorno voleste prestare l’orecchio a capire le nostre vite. Domandatevelo senza ipocrisie e paternalismi: chiedetevelo voi perché noi lo sappiamo, è la nostra quotidianità. Cara Accademia, care istituzioni: le mura dell’Università devono custodire il confronto, non delimitare un privilegio modellato sul mercato del lavoro. Falliscono il loro compito se lasciate che diventino ostacolo alla vista per ciò che avviene al di fuori. Non rendetele catene che ci impediscono di rivederci nelle nostre fragilità: contrastate con forza i tentativi di inaridire il senso di questo luogo e chi continua a volere una corsa all’eccellenza dove fermarsi non è mai permesso e l’indifferenza è normalità, anche quando qualcuno accanto a noi sta male, anche davanti alle ingiustizie. La nostra Università, come tutte, è chiamata a comprendere le proprie responsabilità: le scelte scellerate di chi ora ci governa devono incontrare un argine che impedisca loro di compromettere quella che sappiamo essere un’idea condivisa: la libertà attraverso il sapere. Ci aspettiamo che l’Università di Padova tenga vivo quell’ardore che l’ha storicamente distinta, contrastando i tentativi di limitare la libertà di insegnamento e di indebolire l’università stessa, così come ci aspettiamo che si esprima di fronte a questo nuovo slancio che vorrebbe il controllo di docenti, studenti e lavoratori da parte dei servizi segreti.
Il sapere non può essere un privilegio: il nostro ateneo può decidere di riconoscerlo e fare una scelta, quella di sostenere i suoi studenti, ricercatori, dottorandi e lavoratori precari. Quasi mezzo miliardo di tagli accompagna il DDL Bernini, che rende la precarietà ancora più strutturale e crea un sistema frammentato che aumenta le disuguaglianze anche tra chi di fatto svolge lo stesso lavoro. Allora oggi, proprio per mantenere quel senso che da 803 anni questi luoghi rappresentano, approfittiamo di questo momento per lanciare lo sguardo oltre queste nostre mura. Sappiate che anche se poco a poco, qui dentro, ci sembra di diventare sempre di più sterili numeri, non siamo invisibili e intendiamo tutt’altro che rimanere indifferenti. E’ uno sguardo curioso il nostro, desideroso di conoscere e capire; ma è anche uno sguardo spaventato, e soprattutto stanco di rimanere nascosto in attesa di una legittimazione che sembra non arrivare mai.
Quindi ve lo ribadiamo: i nostri occhi sono su di voi. Sono sulla Regione del Veneto e sul Governatore Zaia, così come i vostri dovrebbero essere sui 3529 studenti che dall’anno scorso attendono risposte sulle borse di studio mai erogate. Sono su di lei Ministra Bernini, e sui 173 milioni di tagli ai fondi di finanziamento ordinario delle università del nostro paese. I nostri occhi sono su di voi, classe politica, Governo. Il vostro controllo dei media non ci è sfuggito—e non ci stupiremmo di una querela per questo intervento. Non credete nemmeno di essere riusciti a celare i vostri fallimentari tentativi di deportare in prigioni amministrative in Albania di persone, persone, migranti. Lo vediamo, che sperate di trovarci impreparati nel cogliere ciò su cui ci ha messo in guardia anche il Presidente Mattarella: nuove sfere di influenza, guidate da oligarchi di diversa estrazione, che sfidano le sovranità democratiche nella fame di gestire il bene comune in maniera monopolistica. Figure cui voi, governo, vi prostrate con fierezza. Vi chiediamo uno sforzo: immaginate cosa prova un ragazzo di 14 anni colpito da un manganello mentre manifesta per la pace, di figurarvi cosa può pensare un giovane che sta studiando per diventare giornalista nello scoprire che il proprio paese potrebbe star spiando direttori di testate attraverso i suoi servizi segreti. Immaginate, anzi, provate sulla vostra pelle, la paura nel cuore di una persona trans, nel vedere erette ad esempio figure come Trump che giorno per giorno invisibilizzano e restringono e annientano quei diritti conquistati a fatica. Presidente Meloni, in che paese vivete esattamente quando parlate di essere sulla strada giusta? Di che orgoglio vi fregiate mentre espatriate torturatori come Almasri con voli di Stato? Che Italia costruite vantandovi di un’occupazione femminile precaria e bloccando l’educazione al consenso mentre fingete rammarico per i femminicidi? A chi vi rivolgete quando frammentate il Paese con l’autonomia differenziata e chiamate “sicurezza” ciò che è ghettizzazione? In che Italia vivete, vi domandiamo, perché quella che viviamo noi evidentemente è diversa.
Per ognuna di queste domande credo ognuno di noi in questa stanza e fuori possa indovinare la risposta. E allora però chiedo alle Istituzioni e alla comunità accademica di tenere fede alla missione culturale, sociale e storica cui siamo chiamati. A noi giovani e studenti chiedo di non sentirci soli, perché non lo siamo. Nella spinta a correre sempre e non guardarci intorno a volte dimentichiamo che qui siamo tutti: madri, padri, cittadini, lavoratori. Le nostre giornate possono essere differenti, ma siamo noi a vivere lo stesso paese e una comune condizione fatta di incertezze, di paura per il futuro e per il presente. Possiamo prestare il fianco a chi ci vuole divisi, oppure possiamo evitare di sprecare gli strumenti di partecipazione democratica di cui siamo in possesso. Primi fra tutti, il voto per i referendum sul lavoro e sulla cittadinanza in primavera. Ce lo insegnano gli studenti in Serbia e ce lo insegna la storia, che non c’è tempo per la rassegnazione.
La storia che studiamo ci ricorda che quest’anno ricorrono otto decenni dalla liberazione dal nazifascismo. Ma anche oggi è storia, e sta a noi decidere come vogliamo venga ricordata otto decenni da ora. La storia di oggi è anche quella dei quindici mesi del genocidio del popolo palestinese, davanti a cui ci avete intimato di fare silenzio perché schierarsi non va bene nemmeno di fronte ad un massacro cui assistiamo in diretta, e alle proposte inumane di deportazione di massa. C’è chi ci taccia di sensazionalismo, di infantilismo addirittura, quando esprimiamo timore dinnanzi ai semi di guerra e di odio che vediamo in tutto il mondo, come in Italia. E invece sappiamo, proprio per gli strumenti che la nostra storia ci ha affidato, che il fascismo non è stato solo quello dell’olio di ricino e delle leggi razziali. Controllo dell’informazione e dei corpi delle persone, libertà garantita solo per alcuni, un approccio alla violenza che si prova a nascondere sotto il tappeto ma che ritorna, per esempio, nei pestaggi in strada o davanti alle scuole superiori, l’ultimo di pochi giorni fa a Vicenza. La storia ci insegna a leggere i segnali, anche quando si presentano in modo diverso, ma se qualcuno non vuole proprio coglierli, davvero è necessario vedere le camicie nere in giro? Oggi ho questa perché l’occasione richiede formalità, ma se proprio serve parlare il linguaggio dei simboli facciamo che me la tolgo: credo che molti, in questo Paese, dovrebbero sfilarsela per davvero. Nel dubbio, io me la tolgo, senza paura di dire che molti in questo Paese dovrebbero fare lo stesso.
Vorrei concludere questo mio intervento rivolgendomi alla mia generazione. Sdraiati, cinici, pigri, fragili, senza prospettive. Ce lo sentiamo ripetere così spesso che forse abbiamo iniziato a crederci: non arrendiamoci a definizioni assegnateci da altri. So che possiamo farlo, perché vedo l’indignazione negli occhi di chi mi circonda, prima ancora della paura. Piuttosto, possiamo partire da quanto, decenni fa, era stato indicato ad altri come noi: istruiamoci, agitiamoci, organizziamoci”.