C’era una volta il festival, il romanzo della nazione

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Sanremo. Al via la settantaquattresima edizione della kermesse ligure con un cast extra large.

Va fatta subito una domanda, per non cedere troppo alla retorica sorvegliata e da pensiero unico che accompagna la grande cerimonia, mediatica prima ancora che musicale. In poche parole: perché la manifestazione si svolge sempre nella pur ridente città del ponente ligure e non diviene itinerante come accade -ad esempio- per la Città della cultura? Quest’ultima viene scelta dopo un’istruttoria con domande sottoposte a processi selettivi. Se è vero che il festival sanremese è il cuore stesso dell’industria del settore, ora persino più di ieri, non è giustificabile che per una sorta di editto paganamente divino la sede sia sempre uguale dal 1951 (con l’entrata in scena dal 1977 del teatro Ariston dopo il Casinò municipale).

Si potrebbe immaginare una rotazione su un territorio ricco di esperienze culturali, in grado magari di ibridare un po’ agende e scalette troppo ispirate da sponsor, influencer, agenti e società di promozione.

Persino la conduzione (senza nulla togliere alle capacità professionali di Amadeus, prossimo -però- a Putin per durata nel ruolo) ha bisogno di una rinfrescata, rovistando con coraggio e creatività nei mille volti ignorati dagli oligopoli dominanti tra le note.

Non solo. Se Sanremo ha acquisito il peso attuale, non è giusto che il percorso volto alla sua centellinata presentazione avvenga nei luoghi riposti e segretati dei retropalchi. Serve una Fondazione specifica, basata su un organismo di indirizzo trasparente, e scelto con metodi democratici e partecipativi. Una simile eventualità darebbe autorità superiore ad un appuntamento fondamentale per il business e per l’immaginario italiano.

Chissà se sarà messa in agenda una discussione ormai non rinviabile, certamente ispida per i poteri (piccoli o meno che siano) consolidati, ivi compresa la municipalità ospitante che magari -dopo l’acquisita gloria sul campo- avrebbe la facoltà di aspirare ad ulteriori obiettivi.

Torniamo alla kermesse. Non è improbabile che quest’anno si supererà il già altissimo share (attorno al 60% di media) dell’anno passato, per vari motivi: la controprogrammazione di Mediaset meno aggressiva rispetto ad altre edizioni forse per non danneggiare una Rai molto governativa; il traino insistito del Tg1 delle ore 20; l’interessante composizione del cast. Soprattutto, però, è presumibile che Sanremo sia diventato una zona di conforto, nonché di fuga dalla realtà tragica delle povertà e delle guerre.

Le giornate dello spettacolo italiano per eccellenza sono un alibi perfetto per distrarsi ed entrare consapevolmente in una bolla attraente e scacciapensieri. Un simile consumo di qualità, secondo le tipologie sancite dalla mediologia, riesce a catturare un pubblico ampio e plurale. Infatti, con il prolungamento dello spettro dell’utenza mediante device variegati e il ricorso ai social si è realizzato il piccolo miracolo di riunificare pubblici di età lontane tra di loro, come sono lontani i livelli di istruzione di chi si sintonizza.

Insomma, un festival della Nazione, nel senso pieno del termine, restituendo occasionalmente unità ad un paese dilaniato da differenze sociali cresciute nel tempo e prossimo ad essere travolto dallo sgorbio della cosiddetta autonomia differenziata.

Inoltre, Sanremo è un toccasana per il fragile conto economico della Rai. La raccolta pubblicitaria in cinque giorni è all’incirca un decimo di quella complessiva di un’annata e l’indotto attorno all’Ariston fa il resto. La medesima media di ascolto di Rai uno aumenta percentualmente nei dodici mesi di un punto percentuale, proprio grazie alla settimana della canzone.

Comunque, un merito da riconoscere tocca un nervo sensibile per la produzione musicale: l’evoluzione dei supporti -dal vinile in poi- ha profondamente modificato le modalità di diffusione. Da Spotify in avanti, con la radio che resiste alle temperie tecniche.

Chissà che ci aspetta con l’intelligenza artificiale e quale esito avrà il vecchio diritto d’autore alla prova della fluidità del concetto di prototipo creativo. Il futuro non aspetta. Ma ne riparliamo alla fine.


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