Se siamo ridotti così, è perché c’è stato Berlusconi

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Il nostro auspicio è che almeno i gruppi parlamentari d’opposizione abbiano ben chiaro che, se siamo ridotti così, è perché trent’anni fa un personaggio che non c’entrava nulla con la politica, se non per i sostanziosi finanziamenti al PSI dell’amico Craxi, le norme salva-Fininvest del buon Bettino e la purtroppo indimenticabile legge Mammì, detta anche Polaroid, “scese in campo”. Parliamo di Berlusconi: l’uomo che ha tenuto in scacco l’Italia per tre decenni dopo averne provocato una mutazione culturale e antropologica per mezzo delle sue televisioni.

Chiunque abbia quaranta-cinquant’anni non ha conosciuto altro. Un’intera generazione, quella dei trentenni, non ha mai vissuto un giorno della propria vita senza che “Sua Emittenza” comparisse in un qualche servizio televisivo: come presidente del Milan, come presidente del Consiglio, come capo dell’opposizione, come leader indiscusso di Forza Italia e persino, spesso, per le sue numerose vicende extra-politiche. I quarantenni di allora, all’inizio stravolti, cominciarono a vedere azzerati i loro percorsi basati sul “saper fare” a favore di chi percorreva la strada del solo “apparire e e comunicare”.

Se ricordiamo tutto questo, è perché vediamo un’eccessiva acquiescenza, dettata probabilmente anche dal rispetto che si deve alle persone scomparse, oltre che dalla proverbiale piaggeria di una parte dei nostri colleghi. C’è, tuttavia, anche dell’altro. C’è, infatti, l’incapacità di leggere la società con lenti che non siano quelle berlusconiane: dal modo di trattare i giornalisti, di cui si discute in questi giorni a proposito degli attacchi scomposti della Meloni e dei suoi pretoriani a Repubblica e Report, alle battutacce di Bandecchi sulle donne, fino a questioni assai più serie, e drammatiche, come l’approvazione, in prima lettura al Senato, dell’autonomia differenziata, un provvedimento spacca-Italia che serve alla Lega come bandierina da sventolare in campagna elettorale in vista delle Europee ma che, se dovesse concretizzarsi, andrebbe di fatto ad abolire alcuni dei principî cardine della Costituzione. Se all’autonomia differenziata sommiamo il premierato, antico sogno berlusconiano, per fortuna mai realizzato, ci rendiamo conto di quanto sia pesante la sua eredità.

Silvio Berlusconi, negli ultimi anni assurto a statista, e considerato tale anche da una parte della sinistra, composta per lo più da dirigenti cresciuti nella sua Italia, di fronte ai suoi programmi e nel milieu complessivo di un paese con un’informazione ridotta ai minimi termini e una temperatura morale bassissima, ha cambiato in profondità il nostro modo di essere. Ci ha resi peggiori, più fragili, più diffidenti. Era il capo del governo delle leggi ad personam. Era l’imprenditore che, a Casalecchio di Reno, annunciò che a Roma avrebbe votato per Fini contro Rutelli, propiziando un’alleanza elettorale che prevedeva la Lega secessionista di Bossi al Nord e il MSI di Fini al Sud, con lo sdoganamento e l’approdo nella stanza dei bottoni di un soggetto post-fascista che nemmeno Tambroni aveva osato portare in Consiglio dei ministri, limitandosi, si fa per dire, alla concessione dell’appoggio esterno. Era al potere nei giorni del G8 di Genova, dell’editto bulgaro, delle guerre in Afghanistan e in Iraq, della cristallizzazione del conflitto di interessi e di molte altre norme che ci hanno condotto nel baratro attuale. Certo, rispetto all’attuale maggioranza, sembra quasi uno statista. Tuttavia, non bisogna cadere in questo tranello. La maggior parte del potere meloniano, difatti, ha condiviso quelle esperienze, Meloni in primis, e di nuovo non ha proprio nulla. Diciamo che i più furbi hanno fiutato l’aria che si respira in ogni angolo del globo. Per fare un esempio, nel ’94, durante il confronto elettorale con Occhetto, Berlusconi poteva tranquillamente definirsi liberista, ponendosi sulla scia della Reaganomics, come del resto aveva già fatto nel discorso del 26 gennaio. Meloni e Salvini, invece, nella stagione del trumpismo arrembante e dopo il fallimento epocale della globalizzazione capitalista, hanno deciso di incarnare la destra protezionista e paleocon tipica del magnate newyorkese. Non hanno elaborato un nuovo pensiero politico ed economico: si sono adattati ai tempi che viviamo, pur non disdegnando misure anti-sociali come lo smantellamento del Reddito di cittadinanza e nuove ondate di privatizzazioni. Fatto sta che se oggi l’Italia è un paese in declino, nel quale non si fanno più figli e dal quale i giovani fuggono, non trovando qui alcuna soddisfazione e dovendo subire un livello di sfruttamento amorale, è perché si è stratificata una sequenza di disastri che ha annientato il nostro tessuto politico, civile e diremmo anche imprenditoriale (basta dare un’occhiata alla proprietà della maggior parte delle squadre di calcio per rendersene conto).

Berlusconi emerse dal vuoto generato dal collasso della Prima Repubblica, che fece, a sua volta, seguito al mutamento di scenari internazionali avvenuto in seguito all’abbattimento del Muro di Berlino. L’intero mondo occidentale commise talmente tanti errori in quegli anni che oggi ne paghiamo tutti le conseguenze. La destra attuale deriva dal collasso del Washington Consensus e dall’inattualità dei suoi ultimi cantori, oltre che dalle difficoltà che incontra la sinistra, a ogni latitudine, a emanciparsi da un passato di esaltazione acritica di una dottrina deleteria.


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