Non tutti i Freedom riescono con il buco

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Finalmente, come hanno rilevato diversi commentatori, l’Unione europea ha cominciato ad occuparsi con maggiore organicità degli svariati capitoli del capitalismo cognitivo. Si sono varati regolamenti significativi come il Digital Services Act e il Digital Markets Act, che attribuiscono responsabilità finora eluse agli oligarchi della rete. Non sono semplici trasportatori, bensì soggetti editoriali. Basta, quindi, con il Far West popolato da ingiurie sessiste o richiami alla razza, nonché di fake a tanto al chilo. In omologa direzione va lo schema sull’intelligenza artificiale, il cui problema il tempo di varo definitivo davanti alla geometrica potenza dell’IA. In simile panorama è ormai alle battute conclusive il provvedimento quadro sui media. Dopo attese pluriennali, qualcosa si muove. Ma è tutto oro ciò che luccica? No. Vale la pena di addentrarsi un attimo nella proposta. Lo scorso 3 ottobre a maggioranza l’assemblea del Parlamento europeo ha approvato l’European Media Freedom Act, una normativa interessante tesa a ribadire i principi fondamentali della libertà di informazione. E non è certamente eccessivo sottolineare la rilevanza di un diritto dei diritti, per usare le parole del compianto Stefano Rodotà. Nel senso che senza conoscere non si può essere davvero cittadini.

Il manifesto si è già occupato della discussione complessa che ha portato alla decisione finale a Strasburgo e ha pure ospitato prevedibili commenti positivi. Tuttavia, l’articolato è sporcato da una macchia grave inserita nell’articolo 4 su spinta soprattutto francese. Povera Rivoluzione. Il pasticciaccio riguarda la possibilità di utilizzare il cosiddetto spyware nei telefoni dei giornalisti in caso sia a rischio la sicurezza nazionale e per proteggere le elezioni (?). Alla luce degli eventi passati e presenti sotto simili affermazioni si nasconde una risorgente volontà censoria. La censura può essere preventiva e condizionare articoli e inchieste. Ma, soprattutto, si sancirebbe il crepuscolo delle iniziative coraggiose di coloro che mettono il naso e la mente sotto la superficie delle verità ufficiali. Insomma, se quell’infausto punto venisse fedelmente applicato, non sapremmo nulla dei numerosi segreti di Stato. Guardando agli anni scorsi, nulla avremmo capito di piazza Fontana, della strage della stazione di Bologna, di Ustica, di rapporti della criminalità con gli apparati deviati. E così via.

Forse, tutto questo non è un caso. Le tendenze della crisi democratica sono chiare: guai ai contropoteri. Insidiosi e troppo autonomi, come la magistratura e la buona informazione. Meglio costruire un meccanismo di controllo, sotto le spoglie ingannevoli di qualche ragione superiore.

Eppure nel suo complesso il Freedom Act contiene aspetti assai positivi nella declinazione dell’argomento: dalla garanzia per le fonti, al rigetto di atteggiamenti oppressivi. Per questo, l’opportunità che viene offerta di mettere sotto sorveglianza i giornalisti risulta contraddittoria e ultronea. L’iter formale non è chiuso. Il prossimo 18 ottobre è previsto il Consiglio europeo, dove qualcosa potrebbe accadere. La protesta, infatti, ha assunto proporzioni assai vaste e riguarda le organizzazioni sindacali dei giornalisti e parti importanti del mondo culturale e associativo. Ovviamente, in simile contesto WikiLeaks non sarebbe mai nata e Julian Assange ancor meno. Vi è, inoltre, il peso simbolico di quelle righe: attenzione, perché se vi infilate in indagini che scoperchiano segreti e faccende non commendevoli, la sorveglianza è inesorabile. Attorno a simili questioni si sono avute lunghe discussioni, audizioni, raccolte di firme in tutta Europa. È bene non distrarsi ora, perché potrebbe appalesarsi un obbrobrio che ridimensiona di molto ciò che vi è di buono in quel testo.

Fonte: “Il Manifesto”


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