Quando Don Antonio Coluccia urlò tra le strade delle periferie di Napoli che “la camorra è la negazione del Vangelo”

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“Tutti possiamo fare la differenza: ogni grande cammino inizia con un piccolo passo”: questa la frase conclusiva della prefazione del mio libro “Nell’inferno della camorra di Ponticelli”, scritta da Don Antonio Coluccia.

Commette un errore madornale chi crede che la sua “missione”, quella che lo spinge a esporsi in prima persona per contrastare lo spaccio e il malaffare, sia circoscritta ai quartieri difficili delle periferie capitoline.

Poliziotto ad honorem, prete antispaccio, prete indigesto: sono solo alcuni degli appellativi che gli vengono attribuiti con maggiore frequenza, ma Don Coluccia ama definirsi semplicemente un prete di strada che persegue un obiettivo ben preciso, quello di salvare il maggior numero di giovani vite dalle insidie della droga e della malavita. E la sua casa d’accoglienza, nata in un bene confiscato alle porte di Roma, ha accolto e salvato anche tanti, tantissimi giovani napoletani che con occhi pieni di gratitudine corrono a salutarlo, quando torna a Pianura, il quartiere d’origine di Don Giustino Russolillo, figura assai carismatica, nonché fondatore dell’ordine vocazionista che ispira le gesta di Don Antonio.

Un legame forte che Don Coluccia ha rivendicato in più di una circostanza con la garbata veemenza che contraddistingue il suo operato, portando quel messaggio d’amore e non violenza di cui è instancabile promotore, tra le strade della periferia occidentale di Napoli, dilaniate dalla camorra, all’indomani delle “stese”, degli omicidi e di fatti eclatanti che hanno concorso a minare la serenità della gente comune.

“Il prete indigesto”, durante le fasi più tese e concitate della faida di camorra andata in scena a Pianura nell’estate del 2022, si è recato sotto casa dei boss in un’atmosfera surreale, dove dozzine di persone nascoste dietro finestre semichiuse ascoltavano quell’omelia urlata attraverso il suo inseparabile megafono, in un contesto distinto e distante dal consueto altare, ma non solo per questo quei camorristi sono rimasti colpiti e spiazzati. La forza che scaturisce dalle parole di Don Antonio infligge un colpo durissimo che non può essere schivato, soprattutto dai “cattivi”.

“Il prete antispaccio” è solito recarsi nei tanti rioni di edilizia popolare delle periferie di Napoli e non solo, dove il business della droga funge da perno portante dell’economia locale. Gli basta armarsi di un pallone e iniziare timidamente a palleggiare per attirare intorno a lui una nutrita folla di bambini che sgomitano per giocare con lui, costringendo i pusher a sospendere l’attività di spaccio.

Don Coluccia è la persona che più di ogni altra mi è stata accanto negli anni bui e difficili, scaturiti dalle aggressioni che ho subito nel 2015. Con le sue incursioni ha provato a scardinare l’isolamento e la delegittimazione che accompagnavano il mio lavoro di giornalista tra le strade di Ponticelli, quartiere della periferia orientale di Napoli che al pari di Pianura è avvezzo ad accogliere fatti di sangue con una certa frequenza.

Anche a Ponticelli, la forza delle parole di Don Antonio ha lasciato un segno indelebile quando, a maggio del 2022, ha celebrato una messa “difficile”, quella organizzata nel giorno del compleanno di due giovani: Carmine D’Onofrio, il 23enne figlio di un boss, ucciso in un agguato di camorra e Luigi Borrelli, un giovane morto in un incidente stradale poco dopo aver raggiunto la maggiore età e figlio di Arturo Borrelli, vittima di abusi sessuali da parte del suo insegnante di religione, Don Silverio Mura, promotore di una durissima battaglia contro la pedofilia nella chiesa, culminata nella sentenza di condanna del Tribunale di Napoli che ha obbligato la Curia partenopea a elargire un risarcimento di oltre trecentomila euro.

“Cari giovani, la vostra vita non è “nel frattempo”, – ha detto Don Antonio durante l’omelia, citando le parole di Papa Francesco – voi siete l’adesso di Dio. Egli conta sulla vostra freschezza e sul vostro coraggio.

“Cari giovani, “voi non avete prezzo”, non siete all’asta, non lasciatevi comprare, sedurre, schiavizzare. Innamoratevi della libertà che Gesù vi offre”.
Luigi e Carmine erano due giovani amici e quel giorno, probabilmente, avrebbero festeggiato insieme il compleanno. Luigi avrebbe spento 22 candeline, Carmine 24.

Due storie diverse, abbracciate dallo stesso dolore, innaffiato dalle confortevoli parole di un sacerdote che quotidianamente si prodiga per salvare giovani vite.

Soprattutto alla camorra, presente anche tra le panche di quella chiesa, Don Antonio Coluccia ha indirizzato una frase forte, fortissima, già urlata tra le strade di Pianura: “La camorra è la negazione del Vangelo”.

Era necessario ricordarlo proprio lì, al cospetto del ricordo di Carmine, un giovane ucciso da una violenta sequenza di spari sotto la pioggia battente di una cupa sera autunnale, sotto gli occhi della sua compagna all’ottavo mese di gravidanza.

Il giovane era il figlio naturale di Giuseppe De Luca Bossa, fratello del fondatore dell’omonimo clan, il “macellaio” della camorra Antonio De Luca Bossa, condannato all’ergastolo e detenuto al 41 bis. Una parentela sottolineata e rivendicata dalla presenza in chiesa di tanti membri della famiglia/clan, molti dei quali hanno preferito restare all’esterno della chiesa, quasi intimoriti dalla massiccia presenza di forze dell’ordine erte a cordone difensivo di quel sacerdote così “anomalo”, perché disposto a mettere a repentaglio la sua vita per imprimere nei cuori dei giovani sentimenti sani come l’amore, il perdono, la libertà. Valori in netta antitesi con quelli che quotidianamente animano le gesta dei camorristi.

Il principio che ispira la missione di Don Antonio trapela in tutta la sua sincera essenza in uno stralcio della prefazione del mio libro: “Un territorio appartiene ai suoi cittadini, non al boss di turno. Ma esso va amato, va protetto, va difeso: i nostri figli hanno diritto di scegliere di vivere liberi, non di finire stritolati nei legacci degli spacciatori di morte. È per loro che dobbiamo trovare la forza di cambiare, di diffondere la cultura della vita. Tutti possiamo fare la differenza: ogni grande cammino inizia con un piccolo passo.”


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