L’oblio come destino. “La corsa dietro il vento” dai racconti di Dino Buzzati

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Lo scorso sabato, 22 aprile, Gioele Dix è tornato al teatro Maggiore di Verbania a due anni di distanza dal fortunato monologo Vorrei essere figlio di un uomo felice, basato sulla Telemachia (i primi quattro libri dell’Odissea omerica), del quale avevamo parlato a suo tempo (https://www.scriptandbooks.it/2021/09/11/lodissea-del-figlio-di-ulisse-ovvero-come-crescere-con-un-padre-lontano-vorrei-essere-figlio-di-un-uomo-felice-di-e-con-gioele-dix/). Questa volta l’attore, autore e regista milanese si presenta sul palco accompagnato da Valentina Cardinali, giovane attrice e cantante di rara duttilità, capace di calarsi in modo altrettanto credibile nei panni di un’impiegata dell’anagrafe dal forte accento veneto (per risultare più credibile), una contessa insopportabilmente snob, una ragazza pericolosamente attratta dalle luci di una festa, una futile arrampicatrice sociale siciliana, un primo consigliere militare, un ambiguo sarto sotto le cui spoglie si nasconde il diavolo in persona…

L’antologia teatrale è un doveroso omaggio alla memoria di un grande novelliere italiano ingiustamente sottovalutato, Dino Buzzati (1906-1972), del quale lo scorso anno ricorreva appunto il cinquantenario della scomparsa, ed è intesa, anche, a strapparlo a quella dimensione di ‘Kafka di serie B’ nella quale tanta critica sorda e prevenuta l’ha relegato. La presente recita si fonda su vari racconti dello scrittore bellunese, tratti dalle raccolte 60 raccontiIl colombre e In quel preciso momento e legati fra loro dal vincolo implicito di temi ricorrenti nella narrativa dell’autore, per quanto trattati sempre con ammirevole varietà di toni e di modi, eppure riconducibili tutti, in un modo o nell’altro, al celebre motto di Qohelet (altrimenti noto come Ecclesiaste): «Vanità delle vanità. Tutto è vanità e un correre dietro al vento. Non c’è alcun guadagno sotto il sole». Ricordiamo qui appena che Gioele Dix è di origine, cultura e religione ebraiche e ha una vasta e profonda conoscenza dei testi sapienziali.

Dino Buzzati

La scenografia onirica e rétro, tra scaffali, libri e un tavolo in legno, disegnata da Angelo Lodi, è di rara suggestione. Non da meno i costumi di Marina Malavasi e Gentucca Bini. Le musiche originali, bellissime e calzanti, elemento non marginale della rappresentazione (non si vorrebbe smettere di ascoltarle), sono scritte dal maestro Savino Cesario.

Qualche perplessità può derivare da certe sottolineature superflue, che tradiscono sfiducia nella capacità del pubblico di cogliere da solo il vero senso della narrazione, e alcuni, peraltro occasionali, siparietti comici – finti battibecchi fra i due attori (in realtà affiatatissimi), pretesto per battute un po’ più corrive, in grado di strappare in platea facili risate (che gli spettatori non negano).

Alle prime battute della rappresentazione, il personaggio interpretato da Gioele Dix, intuendone subito la provenienza, coglie al volo una pallottola di carta (La pallottola di carta che dà il titolo al racconto) lanciata alle due di notte dall’alto di un tetro squallido palazzo popolare dove l’unica luce accesa è quella dell’appartamento dove abita un grande misconosciuto poeta. In realtà è un involto di pezzetti di carta, con brandelli di parole: un puzzle che forse con molta pazienza potrebbe essere ricomposto a formare, chissà?, un capolavoro, versi di una bellezza sovrumana, di quelli che i geni spesso inopinatamente cestinano; potrebbe trattarsi però di una banale nota delle spese, come ne fanno tutti in questa vita miserabile – anche i poeti. In ogni modo, non ci sarà mai dato di conoscere il contenuto, alato o prosaico, di quella carta straccia, dal momento che chi l’ha raccolta per strada non cercherà di rimettere ordine in quel groviglio di lacerti nel timore di dover affrontare una cocente delusione e con l’intento consapevole di lasciare indefinitamente aperte tutte le ipotesi, vive imprecisate speranze.

Ne La ragazza che precipita, una diciannovenne sul culmine di un grattacielo, nel lungo struggente spasimo del tramonto, colta da improvvisa vertigine, attratta dal frivolo incerto brulicare della vita sottostante, laggiù nella strada lontana, si getta euforicamente nel vuoto. Non è peraltro un caso isolato. Altri cedono all’impulso; molti – soprattutto ragazze – ricercano quel brivido di felicità che solo può dare quel folle volo. Al suo passaggio tutti si affacciano alla finestra per ammirarne l’audacia e tentare conversazioni che per forza di cose non possono protrarsi per più di qualche secondo. A mano a mano che precipita (l’altezza del grattacielo sfida qualunque immaginazione) sulla metropoli cala l’oscurità e la velocità della caduta aumenta. La ragazza non riesce ormai a scambiare con i curiosi alle finestre che brandelli di battute, ma in fondo che importa? Là sotto, dove scintillano quelle che le sembrano le luci sfavillanti di una festa, la attendono certamente l’occasione, la fatalità, il romanzo che andava cercando da sempre…

La recita prosegue con Una lettera d’amore: il 31enne gerente di un’importante agenzia, impegnato nella stesura di una folle, improbabile lettera d’amore per tale Ornella, viene continuamente interrotto nel laborioso cimento da incessanti telefonate e visite da parte di commendatori, segretarie, cugine, periti assicurativi, ispettori fiscali, in un crescendo vertiginoso che tocca il culmine con senatori, arcivescovi, capi di Stato Maggiore, presidenti di Corti d’Appello, e mille volte l’innamorato riprende la tenera, impossibile missiva, finché al calar della notte (dopo ore, giorni, anni… chi potrebbe dirlo?), rimasto finalmente solo, nel rimettere ordine nel silenzio dell’ufficio sommerso da una montagna di scartafacci, pratiche, protocolli, mentre si passa la mano fra i capelli ormai canuti, gli cade l’occhio sulla lettera, la legge e riconosce con sbalordimento la propria calligrafia; ricerca invano quel nome nei meandri della memoria: chi era dunque mai quella Ornella?

Nel racconto che dà il titolo allo spettacolo, suddiviso in più sezioni indipendenti, i vari personaggi sono colti in momenti esteriormente insignificanti della loro esistenza, ma indicativi della loro irredimibile pochezza umana – esemplare impasto di volgarità, insulsaggine e vanagloria: una madre che vieta alla figlia di andare a una festa dove c’è un ambiente terribilmente misto, a cui prende parte perfino la figlia di un droghiere; un professore con 30 anni di insegnamento alle spalle che, pur premettendo di non tenere affatto a certe cose – figuriamoci! – si lamenta con un collega perché il loro nome illustre, in un elenco di collaboratori a una rivista, si trova mescolato in ordine alfabetico a quelli di sbarbatelli che hanno preso la libera docenza l’altro ieri, tuonando contro i redattori e minacciando le dimissioni; la rabbia di una contessa nell’apprendere che una lontana cugina, appartenente a un ramo secondario, del tutto trascurabile, della famiglia, si fregi pubblicamente del suo stesso titolo – e si potrebbe continuare, perché Buzzati offre altri spunti, velenosi e malinconici insieme. Tanti anni dopo quei nomi, come testimonia l’episodio finale, che tira impietosamente le file di tutti i precedenti, non diranno più niente a nessuno; su di essi sarà calato il totale oblio.

In un altro racconto (La giacca stregata) il narratore stringe, senza saperlo, un patto col diavolo, travestito da abilissimo sarto, dal sorriso insistente e mellifluo e i modi vagamente ambigui. Nella sua frenesia di guadagno e ricchezza, l’uomo continua a fruire dei facili guadagni che un oscuro maleficio gli procura, per quante disgrazie, lutti e rovine ne discendano agli altri. Finalmente pentito, quando il caso lo tocca in prima persona, perderà tutto, l’auto di lusso, la villa principesca, e troverà i suoi depositi bancari estinti. Nulla potrà più scamparlo ormai al baratro della miseria materiale e umana.

Altrove riecheggiano i motivi presenti ne Il deserto dei Tartari, il più noto fra i romanzi di Buzzati.

La canzone di guerra è quella, insolitamente triste e niente affatto bellicosa, ma profetica (La via del ritorno/nessun sa trovar; dove ti ho lasciata/ una croce ci sta), cantata da un esercito i cui soldati, passando di vittoria in vittoria, si allontanano sempre di più dalla regione di origine, dagli affetti e dalle proprie case, fino ad approdare in luoghi remoti e inesplorati, dai nomi impronunciabili: nessuno di loro vivrà abbastanza a lungo da poter ritornare nella terra natia, alla famiglia perduta, alle persone care ormai dimentiche.

In Quiz all’ergastolo è esposto il caso di una crudele – più che pietosa – occasione offerta una tantum agli ergastolani di poter riottenere la libertà. Riuscirà nell’intento uno solo, ma solo grazie al gioco d’astuzia, all’uso dell’inganno.

Per concludere, Non è mai finita racconta l’odissea privilegiata di una giovane e avvenente donna siciliana che, partita dalla sua incantevole ma arretrata (arretratissima!) Castellizzo, nella smania di sprovincializzarsi, grazie a due fortunati – soprattutto redditizi – matrimoni, coglie l’occasione di trasferirsi, sempre inquieta, sempre delusa, via via a Trapani, poi Messina e Roma (troppo turistica), poi Parigi (polverosa come poche) e Londra (decisamente sorpassata), infine New York, a ben guardare una cafonata insopportabile: meglio, molto meglio, Boston e Charleston, città più vecchie, quiete, riservate. Per seguire, poi, itinerari sempre più eccentrici ed esclusivi, al riparo dalla volgarità delle folle: i deserti, le isole del Pacifico, eremi, ruderi, monasteri, e scoprire finalmente che non c’è niente di più chic, per l’alta società, che la Sicilia, segnatamente il paese di Castellizzo, dove un tempo sorgeva un castello diroccato fatto restaurare da un grande poeta peruviano molto à la page. Il cerchio dunque si chiude… almeno finché non risorgerà, nell’animo della donna, l’ansia di ripartire.

I temi trattati, come si intuisce da questa sintetica esposizione, sono quelli tipici della poetica buzzatiana: l’incombere della morte, la fuga rovinosa del tempo, l’impalpabile angoscia dell’esistere, lo sgretolarsi delle facili illusioni, l’oblio a cui noi tutti siamo fatalmente destinati: quasi sempre storie di vite sbagliate. Tuttavia Dix respinge l’immagine stereotipata di un Buzzati pessimista a oltranza; da anni anzi egli va ripetendo a se stesso una frase dal Deserto dei tartari, sulla quale torna spesso a riflettere (è registrata anche sul suo telefonino cellulare): Resisteva in lui fin dalla giovinezza un presentimento di cose oscure, la sensazione che le cose migliori dovessero ancora accadere: un passo significativo e importante, che l’attore associa al ricordo di una conversazione avuta tanti anni fa con il padre defunto (quello stesso padre, figura amata e dominante a cui alludeva nel suo recital sulla Telemachia): un uomo di poche parole, ma che di punto in bianco- erano seduti su delle rocce davanti al mare – un giorno gli disse: «Ti sconsiglio vivamente, Gioele, di continuare ad aspettare». Colto alla sprovvista, il ragazzo gli chiese a che cosa si riferisse:

«C’è il rischio che a forza di aspettare tu ti accorga di aver consumato tutto il tempo che avevi a disposizione»:

parole impressesi indelebilmente nella memoria del giovane, ‘messaggio’ ed accorata esortazione ad assecondare senza indugi le proprie inclinazioni più autentiche e ad agire finché la vita lo consente e le forze reggono contenuti, a saper guardare sotto la superficie dell’apparenza, nell’intera opera di Dino Buzzati.

La commossa antologia teatrale si chiude su una nota alta, poche righe fra le ultimissime vergate da Buzzati, scritte probabilmente pochi giorni prima della scomparsa, una sorta di testamento spirituale: il brevissimo racconto finale della raccolta, parzialmente postuma, In quel preciso momento (intitolato La segretaria), le cui parole sono accompagnate dalla musica struggente del maestro Cesario e accolte con visibile emozione dall’intero pubblico:

La segretaria a cui dettavo i miei poemi si è sposata e ha due figli, quando la incontro mi saluta, ecco che cos’è rimasto dell’amore.

La mia macchina da scrivere l’ho prestata a un amico, addio addio. Che simpatico ragazzo (parlava però con l’erre) da cinque anni è lontano, avremo mai più sue notizie?

La mia stilografica si è rotta. L’ho lasciata cadere per sbaglio, il pennino d’oro si è fessurato. A uno di quei banchetti specializzati che posteggiano sulle piazze mi hanno detto che non c’è niente da fare.

E la antica mia penna che adoperavo da bambino – ci deve essere ancora – chi è più capace di trovarla? Avevo anche, per scuola, un piccolo calamaio tascabile, vi ricordate? Ma miliardi di uomini nel frattempo sono morti e nati, e con essi deve essere stato sepolto.

Perciò scrivo con la matita. Un mozzicone veramente, trovato in una vecchia scatola, per caso. Gli ho fatto la punta, amici miei, e sulla poca carta bianca che rimane stasera io scrivo.

La corsa dietro il vento

Dino Buzzati o l’incanto del mondo

drammaturgia e regia Gioele Dix
con Gioele Dix
e con Valentina Cardinali
scene Angelo Lodi
musiche Savino Cesario
costumi Marina Malavasi e Gentucca Bini
disegno luci Carlo Signorini
produzione Centro Teatrale Bresciano
in collaborazione con Giovit
distribuzione Retropalco srl
Al Teatro Il Maggiore di Verbania
https://www.scriptandbooks.it/2023/04/27/loblio-come-destino-la-corsa-dietro-il-vento-dai-racconti-di-dino-buzzati/

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