Sinisa Mihailovic: non esistono guerrieri invincibili

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La sua specialità: le punizioni, battute con il sinistro. Raramente fallivano il bersaglio. Un calciatore è in grado di accendere la fantasia dei tifosi, e di chi scrive, come pochi. Epica moderna e moderni “guerrieri”. Che non uccidono i nemici ma segnano gol. Non incendiano città assediate, ma infiammano la passione di chi parteggia per loro. Schieramenti contrapposti, come quelli raccontati da Omero, che utilizzano un campo in erba per ingaggiare battaglie incruente. Il calcio come simulazione di guerre, il calcio che dovrebbe “sterilizzare” il concetto stesso di guerra.

La storia di Sinisa si adatta perfettamente alla simbologia del “guerriero” moderno, armato solo della sua ostinazione agonistica, di piedi capaci di addomesticare l’irrazionalità di un pallone e armato del rispetto nei confronti dei compagni d’avventura. Che lo adorano per la sua autorevolezza e per la sua lealtà. Indipendentemente dalla maglia indossata.

Si adatta alla simbologia anche la sua storia di uomo. Una madre croata, un padre serbo. Prima che la miccia della disgregazione della Jugoslavia trasformasse le diversità in motivo di guerra e vendette, era normalità che ci si innamorasse e si mettesse su famiglia, faticando per tenerla in piedi, tra lavori duri e pochi soldi. Fino al momento dell’implosione che divise il paese e trasformò una pacifica convivenza in divisioni, lutti, stragi.
Non ha mai rimosso Mihailovic il ricordo di quell’orrore. Lui, ragazzo nato nel 69, l’ha presa in piena faccia la guerra. Giocatore della Stella Rossa di Belgrado, trionfatrice in Coppa dei campioni, fino al 92, aveva fatto anche la sua scelta di campo. Era dalla parte della Serbia, non negando la sua amicizia a Zeljko Raznatovic, capo degli ultrà della squadra della capitale accusato di crimini durante la guerra, e non negando il suo favore nemmeno al generale Mladic, o a Slobodan Milosevic. Nel nome dell’identità del popolo serbo.

Prese di posizione che gli sono valse critiche severe, che hanno scatenato polemiche anche nel mondo del calcio e che hanno alimentato il mito del guerriero. Per molti però, dalla parte sbagliata. Non per lui.
La simbologia non lo ha abbandonato nemmeno quando la malattia si è manifestata.
Ha lottato per curarsi e respingerla, è tornato in campo da allenatore sostituendo la sua folta giovanile capigliatura con grandi cappelli colorati. Anch’essi sono diventati simboli. Simboli di un uomo che non vuole arrendersi.
La sua battaglia si è conclusa come nessuno avrebbe voluto. Come soprattutto non avrebbe voluto la sua famiglia che gli è rimasta vicina in questi tre anni difficili.
Il guerriero si è dovuto arrendere. Perché guerrieri invincibili non esistono, né sui campi di battaglia né sui campi di calcio.
Ma i gol di Mihailovic continueranno ad essere raccontati da chi li ha visti, affinchè chi non li ha visti possa ricordarli ancora e riviverli in racconti sempre più carichi di nostalgia e di moderna epica.


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