Solitudine e ferocia di una generazione fragile

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Non entriamo nella vicenda del giovane Alessandro, suicidatosi a soli tredici anni in quel di Gragnano (Napoli) perché stanco della persecuzione che stava subendo da tempo ad opera di un gruppo di cyberbulli che l’avevano preso di mira. Non ci sorprendono nemmeno le futili motivazioni, a quanto pare una vendetta dell’ex fidanzatina per il fatto che il nostro avesse iniziato una relazione con un’altra ragazza. Ciò che ci lascia davvero senza parole è cosa sia diventata la nostra società. È inutile, infatti, soffermarsi sul caso specifico, omettendo una riflessione, invece doverosa, sulla ferocia che caratterizza sempre più la nostra società. Viviamo in un mondo che annega nella barbarie, intriso d’odio, incapace di accettare la benché minima diversità, di accogliere l’altro, di apprezzare anche la fragilità delle persone e di tollerare i difetti del prossimo, come se peraltro qualcuno fosse perfetto. E non stupisce nemmeno il fatto che siano proprio i più giovani coloro che, talvolta, commettono le azioni peggiori, essendo nati e cresciuti in un contesto disumano, in cui non esiste il concetto di pietà e chiunque osi manifestare gentilezza viene considerato un cretino. Non è un caso che le nuove tecnologie, di cui gli adolescenti fruiscono abitualmente fin dalla più tenera età, amplifichino la tendenza in atto in tutto il tessuto sociale. Un tessuto sociale ormai sfibrato, straziato dall’egoismo, figlio della concezione thatcheriana secondo cui “la società non esiste” e ciascuno deve calpestare gli altri pur di farsi strada. Una comunità che è venuta meno, al pari della capacità di ascolto, dell’empatia, della dignità della persona e dell’aiuto bei confronti di chi soffre e ha bisogno di una mano tesa.
Alessandro è stato assassinato da noi, dalla nostra indifferenza, dalla nostra incapacità di far sentire affetto e vicinanza a un tredicenne alle prese con i problemi di ogni tredicenne e dalla furia di un branco di vigliacchi che si sono sentiti forti aggredendo in massa un coetaneo evidentemente più debole, che alla fine non ha retto la pressione e non ha visto alcuna via d’uscita di fronte a minacce risibili ma in grado di ferirlo nel profondo. Spiace dirlo, ma abbiamo educato intere generazioni al disprezzo, al consumismo sfrenato, all’arrivismo, in nome dell'”homo homini lupus” e dell’idea in base alla quale ognuno di noi debba salvarsi da solo, ignorando e scavalcando chiunque ci stia davanti.
A uccidere Alessandro, pertanto, è stata la disperazione, il sentimento che ha finito col travolgere un ragazzo che non ha visto alcuna via di scampo a una condizione di difficoltà che si è trasformata in resa. Lo hanno istigato al suicidio, gli hanno scritto parole orribili e lui si è lanciato nel vuoto. Ha tolto il disturbo, per usare parole sue, e in questa frase è racchiuso il senso di un’epoca senza prospettive: l’idea che un essere umano possa costituire un disturbo, difatti, conduce dritti alle ideologie totalitarie, alle Leggi razziali, ai campi di sterminio. Inserire la silenziosa sconfitta di Alessandro nel contesto di un Paese devastato è l’unico modo per onorarne la memoria ed evitare che drammi del genere possano ripetersi. Piangiamo un ragazzo e, con lui, una certa idea di mondo, fondata sul rispetto reciproco, che è stata scientemente distrutta per quarant’anni e per la cui assenza paghiamo conseguenze atroci.
P.S. Un commosso addio al grande Javier Marías, un punto di riferimento, non solo letterario, per tutte e tutti noi. Da oggi il regno di Redonda è più solo.

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