Le ordinanze anti-caldo della regione Puglia, l’emergenza siccità e il dramma della Marmolada. Una serie di eventi che ci costringe ad una riflessione sul nostro tempo e sul nostro futuro

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Poche settimane fa la Regione Puglia ha varato, ancora una volta, l’ordinanza che vieta il lavoro agricolo nei campi nelle ore più calde della giornata, dalle 12:30 alle 16:00.

Con picchi di 43 °C previsti in alcune parti della regione, è troppo pericoloso esporre i lavoratori agricoli al sole cocente. Un’istantanea già vista negli anni scorsi, quando le temperature salivano troppo e il lavoro nei campi diventava duro, al punto da essere causa di malori e anche di morte.

Ma le ondate di calore di questi giorni colpiscono l’agricoltura in modi molto diversi. In tanti luoghi del nostro paese e del vecchio continente, questo caldo senza precedenti sta causando una siccità tale da far suonare un campanello d’allarme.

Come ricorda l’Istat, che lo scorso 8 luglio ha presentato alla Camera il suo ultimo rapporto, con un capitolo dedicato alla siccità, tra il 2012 e il 2015 l’acqua prelevata per usi agricoli rappresenta circa il 50% del totale dei prelievi di acque dolci, il settore civile ne preleva il 36%, e quello industriale manifatturiero il 14%, con forti differenze sul territorio. Un’agricoltura che è vittima e carnefice allo stesso tempo, dunque.

La siccità minaccia ora seriamente l’approvvigionamento di acqua potabile, ma anche l’irrigazione nella regione più intensiva d’Italia (la Lombardia) e le centrali idroelettriche per la produzione di energia. Il fiume Po è diventato un letto secco e roccioso, la capacità d’invaso del lago Maggiore è sotto del 70%, quella del lago di Como del 50%.

L’emergenza idrica italiana è finita anche sui media internazionali: questo inverno è stato uno dei più siccitosi che il paese abbia vissuto negli ultimi 65 anni, con precipitazioni dell’80% inferiori alla media stagionale.

Il crollo del ghiacciaio della Marmolada il 3 luglio scorso, che ha causato la morte di 11 persone, è stato sicuramente tra gli eventi più drammatici degli ultimi anni, che hanno rivelato a tutti il volto dei cambiamenti climatici e quali sono gli effetti, se si continua ad ignorare una situazione ormai strutturale. Secondo gli scienziati del CNR, che hanno ricostruito la dinamica dell’accaduto, la presenza di molta acqua sul ghiacciaio ha fatto staccare infatti una grossa porzione di ghiaccio, che stava iniziando a frammentarsi già da qualche anno, a causa dell’aumento di circa 2°C nei mesi invernali, rispetto alla media registrata nell’area tra il 2018 e il 2021.

Di fronte a questi eventi e alle morti, occorre mostrare sicuramente rispetto. Ma c’è anche un tempo per la rabbia e per l’azione.

L’11 luglio, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha annunciato quattro misure di grande portata per arginare la siccità. La fonte del denaro sbloccato è sempre il Recovery Plan: 4,4 miliardi di fondi per la depurazione delle acque reflue per agricoltura e manifattura; riparazione, digitalizzazione e monitoraggio del sistema idrico; nuove infrastrutture idriche su tutto il territorio nazionale e l’ammodernamento e il potenziamento del sistema idrico in agricoltura.

Misure che riusciranno ad accontentare solo in parte le richieste del settore e che il prossimo anno probabilmente non basteranno più. Questo perché la crisi climatica che stiamo affrontando ha bisogno di risposte e di scelte radicali, non di palliativi. Non serve avere una rete idrica nuova, ma investire nella manutenzione di quella esistente, che oggi mediamente dissipa circa il 40% del flusso totale. E prima ancora occorre ripensare questo modello produttivo energivoro e idrovoro, per adeguarlo ai ritmi della natura e alla capacità di rigenerazione delle risorse.

Nel settore della produzione del cibo, l’agricoltura industriale sta fallendo, mentre la tanto vituperata agricoltura di prossimità, contadina e di piccola scala continua a rappresentare l’ossatura del nostro paese, con 9 aziende su 10 ancora a gestione familiare. Investire di più su queste realtà, invece di convogliare i finanziamenti europei sulle grandi e grandissime aziende converrebbe a tanti: al comparto agricolo, ai suoli, alla nostra alimentazione, al mercato interno, alla salute e all’ambiente.

L’ urgenza di andare in questa direzione è immortalata anche dall’Istat, che nel suo recente censimento sull’agricoltura registra la scomparsa, negli ultimi vent’anni, di metà delle aziende agricole italiane, quasi tutte realtà di piccola e media dimensione. Proprio quelle che andrebbero sostenute ridistribuendo verso il basso i sostegni al reddito garantiti dalla Politica agricola Comune (PAC). E invece, la PAC 2023-2027 continua a privilegiare un modello vetusto, destinato a distruggere l’agricoltura familiare, le economie di piccola scala e la salvaguardia della biodiversità. La prova che per questa transizione ecologica, in Italia come in Europa, c’è ancora da aspettare.


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