Da Calvi alla Corte Suprema: quarant’anni di barbarie 

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C’è un filo rosso che collega le molteplici vicende di cui occuperemo in quest’articolo. Quarantanni fa, infatti, veniva ritrovato impiccato, sotto il ponte dei Frati neri a Londra, il banchiere Roberto Calvi. Una morte sospetta, a partire dai mattoni che aveva in tasca e dai quindicimila dollari che aveva addosso; senza contare le dinamiche di potere sporco che si svilupparono in quegli anni, travolgendo persino la Banca d’Italia dell’allora governatore Baffi e del responsabile della vigilanza sugli istituti di credito Sarcinelli, entrambi rivelatisi poi innocenti, fino a giungere al crack del Banco Ambrosiano e agli intrecci fra lo stesso Calvi, Sindona e lo IOR di monsignor Marcinkus. Questa vicenda, apparentemente remota, spiega bene, invece, la perversione degli incroci di potere e affari che hanno devastato l’Occidente negli ultimi quattro decenni. Del resto, basta rileggere la celebre intervista rilasciata da Berlinguer a Scalfari il 29 luglio 1981 per rendersi conto di quanto avesse ragione il segretario del PCI quando denunciava i comitati d’affari, l’occupazione di ogni carica pubblica e la distruzione degli ideali di un tempo in un contesto politico che stava degenerando e il cui disastro definitivo, per quanto concerne l’Italia, si sarebbe avuto undici anni dopo con  l’esplosione di Tangentopoli.

In quarant’anni la politica è sostanzialmente scomparsa, lasciando spazio alla ferocia di una finanza predatoria e senza freni, la quale si è impossessata di tutti i gangli del potere, fino a regolare le nostre vite in ogni minimo aspetto. L’abbattimento del Muro di Berlino, ovviamente positivo, e il progetto egemonico del sistema occidentale hanno fatto il resto, provocando danni forse irreparabili. Il non detto di molte analisi, difatti, riguarda la globalizzazione senza regole che, a partire dagli anni Novanta, si è impossessata del nostro immaginario collettivo, producendo non la democrazia dell’alternanza bensì l’alternanza fra soggetti politici che di democratico, al proprio interno, hanno avuto sempre meno. Non solo: abbiamo visto la sinistra inaridirsi e perdersi, abbracciando acriticamente un modello sociale, economico e di sviluppo dissennato e pericoloso e finendo col regalare l’intero Occidente a una destra regressiva e volta a esasperare sempre di più le disuguaglianze, arrivando a produrre un malessere collettivo che nemmeno le politiche vagamente progressiste di Barack Obama sono riuscite ad alleviare. Del resto, lo si diceva già a Seattle e sotto i tendoni del Carlini, a Genova, che il rischio era quello di andare verso guerre infinite e indefinite, verso una finanziarizzazione dell’economia che avrebbe portato alla sostituzione del concetto stesso di economia e all’eliminazione della politica dalla società, verso crisi bancarie a ripetizione e verso un collasso che avrebbe generato carestie e flussi migratori difficili da controllare e, in seconda battuta, da includere nei nostri paesi. Sappiamo come è andata a finire fra il ’99 e il 2001 ma ci torniamo perché è da lì che bisogna ripartire. Senza aver presente quella bussola, quella contestazione ampia e globale di istituzioni come il WTO, l’FMI, la Banca Mondiale e i vari trattati di libero scambio che di libero hanno poco o nulla mentre mettono a repentaglio migliaia, se non milioni, di posti di lavoro, non si riesce, difatti, a comprendere ciò che sta accadendo oggi. Se Putin, uno degli otto di Genova, Xi Jinping, Bolsonaro e altri esempi di autoritarismo sfrenato si sono riuniti nei giorni scorsi sotto l’insegna dei BRICS, lanciando sostanzialmente una sfida mortale al modello occidentale, e se il loro messaggio, dannoso e anti-democratico, sta riscuotendo un discreto consenso anche alle nostre latitudini non è perché siamo diventati, all’improvviso, tutte e tutti putiniani ma perché i nostri presunti valori li abbiamo calpestati troppo a lungo.
Per rendersene conto, basta guardare l’uno-due della Corte Suprema americana, fra la liberalizzazione estrema delle armi e la sostanziale abolizione del diritto all’aborto, preludio dello smantellamento di altri diritti fondamentali, in un trionfo di estremismo pseudo-cattolico, regresso jihadista ai danni delle donne e pura barbarie che ha come scopo finale il ritorno non tanto di Trump in sé quanto dell’essenza del trumpismo, forse incarnata, al prossimo giro, da una figura addirittura peggiore e più retrograda del tycoon che per quattro anni ha messo a repentaglio la Casa Bianca e il mondo intero. E siamo sempre lì. Basta dare un’occhiata alla miriade di errori compiuti da Biden, dall’Afghanistan all’Ucraina, per accorgersi che la sedicente sinistra è esanime, che non ha più nulla da dire da nessuna parte, che ignora i diritti dei dannati della globalizzazione e delle sue conseguenze deleterie e che su troppi aspetti finisce col ricalcare malamente le politiche dissennate della destra peggiore. Basta rendersi conto, poi, della sconfitta di Macron in Francia e dell’arroganza con cui la sta gestendo per rendersi conto del perché abbia ancora forza una personalità imbarazzante come Marine Le Pen, fortunatamente arginata, almeno in parte, dall’avanzata di Mélenchon, in particolare fra i più giovani. Sull’Italia è  opportuno sorvolare perché, per parlarne, bisognerebbe far ricorso a volgarità che è meglio evitare. Unendo i puntini, si evince che siamo in una delle fasi storiche più catastrofiche in assoluto, con la sinistra in disarmo dopo trent’anni di sudditanza ai dogmi del liberismo, una serie di Tafazzi che ancora portano avanti ricette strafallite ovunque e una destra retriva che si avvantaggia del malcontento diffuso per condurre indietro di decenni le lancette della storia.

Siamo partiti da Calvi perché la barbarie è iniziata in quegli anni. Siamo passati per la globalizzazione forsennata e devastante degli anni Novanta-Duemila perché quello è stato il punto di non ritorno. Siamo approdati, infine, ai giorni nostri e possiamo solo constatare il baratro in cui siamo sprofondati. Per risalire, eticamente, culturalmente e a livello politico, ci vorranno anni. E forse, non vorrei sembrare eccessivamente pessimista, non c’è più tempo.

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