Ilaria Cucchi, la forza del diritto

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Giustizia è fatta. Ciò non attenua in alcun modo né il calvario patito da Stefano Cucchi, nei giorni che ne precedettero la morte in seguito a un violentissimo pestaggio, né lo strazio che ha dovuto affrontare in questi tredici anni sua sorella Ilaria e ancor più i suoi genitori. Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, i due carabinieri responsabili, sono stati condannati in via definitiva. Non è nostro costume esultare: non lo abbiamo mai fatto e mai lo faremo, perché quando un essere umano finisce in carcere è sempre un dramma e, essendo noi assai diversi da loro, intendiamo farcene carico. Le considerazioni si spostano, dunque, su un altro piano. Spiace dirlo, ma nei giorni in cui torna all’attenzione delle cronache anche il caso del parà Emanuele Scieri, morto in circostanze non ancora chiarite nell’agosto del ’99, mentre stava svolgendo il servizio militare nella Folgore, presso la caserma Gamerra di Pisa, bisogna ragionare su quanto sia inaccettabile che determinati episodi avvengano all’interno di corpi che dovrebbero essere estranei, per loro stessa natura, a ogni forma di sopruso e violenza.
Le forze dell’ordine e l’esercito, infatti, nascono e hanno ragione di esistere solo se la loro correttezza è specchiata e assoluta, se i cittadini possono averne fiducia in ogni circostanza, se danno sempre l’impressione di far rispettare le regole e di non tollerare alcuna forma di violazione delle stesse al proprio interno, se ripudiano ogni barbarie e si oppongono a ogni sopruso e se addestrano i propri membri all’insegna della lealtà e della massima attenzione al bene comune della sicurezza. Basta un episodio, e sinceramente ormai ne abbiamo visti un po’ troppi, per minare quel rapporto fiduciario senza il quale è il concetto stesso di democrazia a essere messo a repentaglio. Ci auguriamo, pertanto, che adesso emerga, all’interno dei corpi dello Stato, una seria autocritica su ciò che è stato e su ciò che non dovrà accadere mai più. La sentenza sul caso Cucchi giunge a dieci anni di distanza dall’epilogo del processo Diaz, che confermò le condanne a carico di alcuni dei massimi dirigenti della Polizia italiana, contribuendo a rendere un minimo di verità e giustizia alle vittime di quell’orrore ma lasciando aperta, al contempo, una ferita che difficilmente potrà rimarginarsi, specie se si considera quanti dei protagonisti di quella vicenda sono stati, invece, promossi, con buona pace delle richieste provenienti dalla Corte di giustizia di Strasburgo, della nostra Costituzione, che pone la dignità della persona al centro del processo normativo, e del più elementare buonsenso.

L’unico modo per onorare la memoria di Stefano Cucchi, dopo anni di infamie, battute irricevibili, cattiverie gratuite, insinuazioni, silenzi e tentativi di far cadere nell’oblio una tragedia che va ben al di là del perimetro di una famiglia distrutta dal dolore, l’unico modo per far sì che il suo calvario e quello dei suoi cari non sia stato vano è quindi impegnarsi affinché non ci sia mai più un altro Stefano Cucchi.
Il merito di Ilaria è stato soprattutto di non averne mai fatto un eroe: non lo era. Stefano era un ragazzo buono e fragile, con alcuni problemi di droga alle spalle e una disperata voglia di vivere. Aveva commesso degli errori e stava tentando di venire a capo della sua vita, di trovare un senso a un’esistenza partita in salita ma comunque ricca di prospettive e di trasformare la sua gentilezza e la sua sensibilità nel motore di una rinascita. Gli è stato impedito dalla ferocia di chi ha lordato la divisa che indossava con atteggiamenti che oggi sono stati finalmente sanzionati a dovere: lo scriviamo senza alcun piacere, senza alcun godimento e, anzi, con il sincero auspicio che anche i colpevoli possano comprendere fino in fondo la gravità dell’atto che hanno compiuto e uscirne migliori.

Quanto a noi giornalisti, alla classe politica e alla società nel suo insieme, sarebbe bene riflettere, una volta per tutte, sul fatto che una comunità sana è quella che sa accogliere anche i più deboli, i poveri, chi soffre, chi commette degli sbagli, chi da solo non può farcela e chi rischia di perdersi. Bisogna riflettere, una volta per tutte, sull’assoluta necessità che la forza del diritto prevalga sul diritto della forza, che la dignità umana torni a essere centrale, che l’amore per il prossimo sconfigga ogni pregiudizio e che nessuna forma di pena sia mai volta ad annientare chi la subisce ma, semmai, a recuperarlo. E vale anche per i due soggetti condannati per il caso Cucchi, sia chiaro: pure loro hanno diritto al massimo rispetto e all’aiuto che merita chi ha bisogno di ritrovarsi. Scriviamo tutto questo perché noi del caso Cucchi non deprechiamo solo l’accanimento selvaggio nei confronti di un uomo debole e solo ma l’idea stessa che ci si possa accanire contro un essere umano. Ora è il momento della pietà. Tacciano i seminatori di zizzania, tacciano i predicatori d’odio, taccia chi istiga quotidianamente alla violenza e si vergogni chi ha aggredito verbalmente una donna straordinaria gettandole addosso fango e discredito. Ilaria ha ottenuto ciò che voleva: verità e giustizia, nulla di più. E noi abbiamo recuperato un minimo di fiducia nelle istituzioni, anche se la strada da compiere è ancora molto lunga.

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