Il judoka Putin e i valori dell’Occidente 

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Una delle possibili interpretazioni della tragedia che sta sconvolgendo l’Ucraina riguarda la personalità e le caratteristiche di Vladimir Putin. Il presidente russo è un judoka: sembra un aspetto secondario ma non lo è. La filosofia del judo si basa, infatti, sul principio di sconfiggere l’avversario facendo leva sulle sue debolezze e sui suoi eventuali errori. Ebbene, fin dall’intervista che il nostro rilasciò a Lionel Barber, all’epoca direttore del Financial Times, il 28 giugno 2019, Putin ha posto l’accento sulla fragilità dell’Occidente e sui nostri evidenti limiti. Non c’è dubbio, difatti, che i cosiddetti valori liberali, ossia i canoni del mondo post-’89, mostrino ormai la corda. Basati sull’idea che la storia fosse finita, che il mercato bastasse a garantire democrazia, futuro e benessere, che il peso dello Stato dovesse essere ridotto al minimo indispensabile, che il welfare state, cardine dei “trenta gloriosi”, appartenesse ormai al passato e che le disuguaglianze fossero un elemento creativo e in grado di generare crescita, sviluppo e opportunità, abbiamo compreso a nostre spese che tutto ciò era, in realtà, una drammatica illusione.
Lo abbiamo capito fin dal 2001, quando la globalizzazione, magnificata al G8 di Genova dallo stesso Putin, mostrò chiaramente dapprima il portato repressivo su cui si fondava per difendere se stessa da una sacrosanta contestazione e poi la sua componente bellica, in risposta agli attentati dall’11 settembre. Il 2008 della Lehman Brothers ha rappresentato per la mia generazione la definitiva perdita dell’innocenza, già minata in quei giorni di luglio di ventuno anni fa ma mandata per sempre in soffitta dall’avvento di una crisi globale che ha sconvolto l’universo democratico che davamo ormai per acquisito.
Le crisi degli anni successivi, fino a quella pandemica del 2020 e alla catastrofe cui stiamo andando incontro in questi giorni, ci dicono, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il paradigma complessivo degli anni Novanta non fosse un sogno ma un incubo. E allora siamo a un bivio: o mettiamo gli stivali sul terreno e sfidiamo il dittatore russo nel campo che predilige, quello della guerra, della violenza e della barbarie, o ripensiamo noi stessi e il nostro modo di essere. Occorre un cambiamento radicale, una svolta complessiva delle politiche planetarie, un ritorno allo spirito costituente dell’immediato dopoguerra, una ridefinizione delle carte e delle istituzioni su cui si fonda il nostro stare insieme. Bisogna ridefinire l’ONU, innanzitutto, rivedendo la composizione del Consiglio di Sicurezza e la funzione di un’organizzazione essenziale per il nostro stare insieme, troppo a lungo sottovalutata e sminuita. A tal riguardo, una buona base di partenza potrebbe essere il saggio “La riforma dell’ONU” a cura di Mariantonietta Colimberti: una raccolta di scritti, interventi e interviste dell’allora ministro degli Esteri, Beniamino Andreatta, che offre una panoramica profonda e dettagliata sull’argomento.
Bisogna, poi, tornare a Bretton Woods e stabilire una seria cooperazione fra euro e dollaro perché l’Occidente, se davvero vuole difendere i propri valori, non può pensare di assistere a una logica di competizione sfrenata e disumana fra le monete. Ma, soprattutto, bisogna rilanciare sia l’Europa, da trasformare quanto prima in una vera comunità politica, con tutto ciò che questo passaggio comporta, sia il progetto di uno Stato forte, accogliente, solidale e al fianco dei cittadini, ossia il caposaldo di Keynes e Beveridge, punto più elevato del compromesso socialdemocratico che nel dopoguerra favorì la nascita del ceto medio, costituendo il presupposto essenziale per la pace e la tenuta della società in una fase storica tutt’altro che semplice e non certo priva di tensioni. Se davvero vogliamo sconfiggere Putin, o quanto meno disinnescarne le mire imperiali, dobbiamo, come detto, ripensare noi stessi e il nostro modo di vivere e di agire. E non saranno le armi a raggiungere l’obiettivo né un’estensione smodata e isterica della NATO, un’istituzione da ripensare da cima a fondo e, forse, addirittura da superare, ridefinendo il Patto Atlantico su nuovi presupposti, specie se si considera che gli equilibri del ’49 sono ormai venuti meno e che l’America non ha più la funzione di gendarme del mondo. In un pianeta policentrico e caratterizzato dall’ascesa di potenze che certo non si lasceranno nuovamente confinare nelle retrovie della storia, la Cina su tutte ma non solo lei, comprendere che il Ventunesimo secolo, per essere pacifico, non dovrà essere né americano né cinese ma collettivo è un passaggio essenziale.
Se davvero vogliamo prosciugare lo stagno in cui la zanzara Putin è proliferata, dobbiamo rendere i cittadini nuovamente protagonisti del processo sviluppo, garantendo loro un avvenire sicuro e all’insegna della dignità e dei diritti. Se vogliamo che il modello autoritario non sia più attrattivo, dobbiamo restituire smalto e funzionalità alla democrazia, a cominciare dall’opera dei Parlamenti, annichiliti dalla smania governista dell’ultimo trentennio. Se vogliamo che nessun cittadino occidentale provi più alcuna simpatia per forme di potere anti-democratiche, dobbiamo avere il coraggio di dire che i nostri valori non sono tali e che la nostra ipocrisia sui diritti umani, citati a seconda delle convenienze economiche e geo-politiche del momento e accantonati, ad esempio, quando c’è da respingere in mare i disperati in fuga da guerre non meno sanguinose di quella ucraina, è indegna dell’idea di Europa che espressero Spinelli, Rossi e Colorni sull’isola di Ventotene.
Fra pochi giorni ricorrerà il quarantaquattresimo anniversario del rapimento di Aldo Moro. È bene ricordare un passo di una lettera che scrisse all’allora segretario della DC, Benigno Zaccagnini: “Ho riflettuto molto in queste settimane. Si riflette guardando forme nuove.  La verità è che parliamo di rinnovamento e non rinnoviamo niente, la verità è che ci illudiamo di essere originali e creativi e non lo siamo, la verità è che pensiamo di far evolvere la situazione con nuove alleanze, ma siamo sempre là con il nostro modo di essere e di fare, nell’illusione che, cambiati gli altri, l’insieme cambi e cambi anche il paese, come esso certamente chiede di cambiare. Ebbene caro segretario, non è così. Perché qualcosa cambi dobbiamo cambiare anche noi”. E anche un altro: “Si tratta di capire ciò che agita nel profondo la nostra società, la rende inquieta, indocile, irrazionale, apparentemente indomabile. Una società che non accetti di adattarsi a strategie altrui, ma ne voglia una propria in un limpido disegno di giustizia, di uguaglianza, di indipendenza, di autentico servizio dell’uomo”. Sono riflessioni tuttora estremamente attuali. Con meno di questo, Putin avrà vinto culturalmente assai prima che a Kiev.

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