Bolzaneto: da lager a centro d’accoglienza 

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Lettera aperta al Capo della Polizia e alle ministre degli Interni e di Grazia e Giustizia
Egr. dott. Giannini, gent.me ministre Lamorgese e Cartabia,
a scrivere questa lettera sono, oltre a un giornalista e a un insegnante che si battono per i diritti umani, alcune persone che ben conoscono cosa sia avvenuto nella caserma di Bolzaneto fra il 20 e il 22 luglio 2001. Lo sappiamo perché eravamo lì, fra le ragazze e i ragazzi che, per dirla con Roberto Settembre, magistrato del processo d’Appello su quei fatti, “gridavano e piangevano”. Lo sappiamo perché abbiamo subito sulla nostra pelle insulti e minacce, abbiamo visto compagne e compagni picchiati a sangue, abbiamo subito abusi, minacce di stupro, spray urticanti gettati negli occhi e una quantità di soprusi che sono agli atti dei processi e che non staremo qui a ripetere, in quanto non è solo in qualità di vittime che vi scriviamo. Vi scriviamo perché le nostre vite, da allora, sono cambiate per sempre. In alcuni casi, abbiamo impiegato vent’anni per riprenderci davvero e trovare la forza di parlare, raccontare ciò che abbiamo subito e recuperare un minimo di fiducia nel prossimo e nelle istituzioni.
Vi scriviamo perché, purtroppo, da allora, di donne violentate, stuprate e, talvolta, addirittura uccise ne abbiamo viste troppe. Vi scriviamo perché la violenza nelle carceri esiste ancora, come testimoniano le drammatiche vicende di Santa Maria Capua Vetere. E vi scriviamo perché in questo nostro lungo percorso di rinascita e ricostruzione di noi stesse abbiamo compreso l’importanza di non odiare niente e nessuno, meno che mai una categoria, solo per la divisa che indossa o per il ruolo che ricopre all’interno della società. Non è stato facile: è un percorso che abbiamo avvertito il dovere di compiere per il bene nostro e delle nostre famiglie, affinché i nostri figli e le nostre figlie non crescessero con un’idea sbagliata del vivere civile. Vi scriviamo perché uno degli aspetti più belli del nostro ritrovarci, del nostro parlare e del nostro confrontarci è proprio la mescolanza di idee e proposte, l’abbraccio, sia pur a distanza, fra persone che magari erano nella stessa cella e da allora non si sono più viste. In quell’orrore non potevamo nemmeno guardarci negli occhi, se non correndo il rischio di subire ingiurie d’ogni sorta, manganellate e quanto di peggio si possa concepire. Ora che siamo persone libere, in qualche modo realizzate e felici delle nostre vite ricostruite, ora che abbiamo accanto a noi gli affetti più cari e molte delle certezze che in quei giorni maledetti erano andate perdute, vi scriviamo per chiedervi di compiere un passo importante, un gesto significativo che arricchirebbe sicuramente la nostra comunità.

Vi scriviamo senza tornare nemmeno per un istante sulla richiesta di qualcuno di non apporre la targa in memoria di quei fatti davanti alla caserma. La targa va apposta proprio lì perché altrove non avrebbe alcun senso. Va apposta lì perché non è che ad Auschwitz o a via Tasso le indicazioni sono state poste a dieci metri di distanza per non urtare la “sensibilità” di qualcuno. E al Ghetto di Roma le pietre d’inciampo si trovano proprio di fronte ai portoni delle case dalle quali furono portati via gli ebrei durante il rastrellamento nazista del 16 ottobre 1943, così come una targa, anzi più d’una, campeggia sui muri della stazione Tiburtina, con la richiesta esplicita che tutto questo non accada mai più. Vi chiediamo, come detto, qualcosa di più, ossia l’impegno a trasformare quella caserma, che sarà per sempre sinonimo di abisso, di barbarie e di paura di morire, perché noi ne abbiamo avuta tanta, credeteci, in un centro d’accoglienza. Vorremmo che le forze dell’ordine che vi lavorano, nell’interesse della comunità e con il nostro pieno e assoluto rispetto, venissero trasferite in un’altra sede, proprio perché le loro divise e le loro persone, sulla cui rettitudine morale non abbiamo motivo di dubitare, non venissero più macchiate dall’infamia e dai crimini commessi da altri. Vi chiediamo che a Bolzaneto, dove noi e centinaia di altre donne sono state trattate come merci, umiliate, vessate e private della benché minima dignità, venga allestito un centro d’accoglienza per le donne vittime di violenza e, perché no?, pure per i migranti.
A una condizione, sia chiaro: che l’accoglienza non preveda anche il rimpatrio perché i diritti umani sono sacri e chi fugge dalla miseria, dalla fame e dalla guerra non può essere gettato nuovamente fra le grinfie dei propri aguzzini. Vedete, fra gli slogan scanditi dai nostri carnefici, il più atroce recitava: “Un, due, tre: evviva Pinochet! Quattro, cinque, sei: a morte gli ebrei! Sette, otto, nove: il negretto non commuove! Sigh heil, apartheid!”. La negazione della democrazia, l’esaltazione del nazismo, il trionfo dell’odio nei confronti delle minoranze e di chi fugge dalla barbarie. Noi non siamo e non saremo mai come loro. Ecco perché vorremmo che nel luogo in cui noi fummo torturate, e il verbo è pienamente legittimo, altre donne e altri uomini venissero invece accolti, presi in carico dallo Stato con gentilezza e amore, custoditi e messi nelle condizioni di rifarsi una vita. Solo allora quella targa, che dovrà essere apposta comunque, lo ribadiamo, avrà davvero il valore che merita e il significato per cui una giovane consigliera, Martina Caputo, cui va la nostra gratitudine, l’ha pensata e proposta nel consiglio del suo municipio. Noi continueremo a chiedere verità e giustizia per tutte le vittime, andando ben oltre il nostro dramma personale.
Ci aspettiamo dalle istituzioni, che voi incarnate, una risposta adeguata, all’altezza del difficile compito che avete assunto e che svolgete ogni giorno. Auspichiamo quel dialogo, quel confronto e quel proficuo scambio di idee fra le istituzioni e la cittadinanza democratica che è l’essenza stessa della democrazia e della nostra Costituzione. Sono valori inderogabili. Sono le ragioni per cui manifestammo pacificamente ventuno anni fa a Genova e lo rifaremmo ancora. In nome di un altro mondo possibile e oggi, più che mai, necessario.
Manuela Tangari
Adarosa Di Pietro
Stefania Galante
Cecilia Di Cerbo
Roberto Bertoni 

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