2021, da Genova al futuro

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Per una volta, scusate, ma vi parlo di me. Non perché questo 2021 non abbia regalato momenti significativi, in politica interna come in politica estera: basti pensare all’avvento di Draghi, in seguito all’assurda crisi di governo aperta da Renzi in piena pandemia, o alla conclusione dell’era Merkel in Germania; per non parlare poi di ciò che è avvenuto negli Stati Uniti a inizio anno, con l’assalto trumpiano a Capitol Hill e il deludente avvio dell’amministrazione Biden. Vi parlo di me perché, per una volta, sento che la mia vicenda personale si intrecci a pieno titolo con le grandi questioni di questi dodici mesi indimenticabili. Il 2021, infatti, è stato l’anno di Genova, e Genova è stata per me molto più di un’inchiesta, di un viaggio, di un’avventura umana e professionale. È stata certamente tutto questo ma è stata, soprattutto, una certa idea di umanità e di mondo, una visione sociale, una prospettiva, un altro sguardo. Genova è stata per me l’incontro con infiniti mondi, e in quest’esperienza sono stati i miei occhi a cambiare per sempre, il mio sguardo a incrociare una prospettiva nuova e ad abbracciarla. Nel ventennale del G8 che sconvolse per sempre il nostro Paese e di cui quest’associazione, che si avvia a compiere a sua volta vent’anni, è figlia legittima, in questa ricorrenza così significativa ho trovato le risposte ai mille dubbi che non ero mai riuscito a fugare.
Genova mi ha spiegato, ad esempio, le ragioni della crisi della politica, della sinistra e dei sindacati, ricordandomi lo scempio compiuto il 21 luglio di vent’anni fa da chi, dopo l’omicidio di Carlo Giuliani e i disordini devastanti che avevano caratterizzato la giornata precedente, scelse di ritirarsi dal corteo internazionale. In seguito a quella decisione, dopo aver abbandonato almeno trecentomila persone alla violenza inumana dei tonfa e dei pestaggi indiscriminati lungo tutto il corteo, come pensavano quelle forze politiche e sindacali di essere ancora rappresentative di qualcunone di qualcosa? Ci siamo illusi, pochi mesi dopo, vedendo il Circo Massimo gremito di bandiere rosse e traboccante di passione civile e politica, che fosse rimasto ancora qualche sentimento, e questo è senz’altro uno dei meriti storici di Sergio Cofferati, ma diciamo che sono stati, ahinoi, gli ultimi fuochi di un entusiasmo che si andava via  via spegnendo, mentre l’Italia berlusconizzata viveva una condizione di crescente degrado di cui l’editto bulgaro avrebbe costituito la punta dell’iceberg. Molto di ciò che non funziona oggi viene da allora ma solo quest’estate, vedendo Genova, immergendomi nei suoi temi, nei suoi dibattiti, nella sua straziante bellezza e nel suo infinito dolore, l’ho capito. Solo quest’anno ho potuto cominciare a chiedere scusa a tutte le persone che ho ferito, con i miei pregiudizi, con i miei errori di valutazione, con le mie troppe parole sbagliate e fuoriluogo.

Solo quest’anno, osservando quegli sguardi, leggendo quei racconti, abbracciando quelle storie e comprendendone fino in fondo la potenza e l’abisso, mi sono reso conto che ciascuno ha il pieno diritto di vestirsi come meglio crede, di farsi un piercing se crede, di portare i capelli come più gli aggrada e di non essere discriminato né disprezzato per questo. Solo quest’anno ho imparato davvero che il problema degli altri è uguale al mio, riscoprendo don Milani e provando a prendere idealmente per mano un’umanità meravigliosa. Solo quest’anno ho capito che non potrò mai restituire a queste persone eccezionali le sensazioni, le lacrime, le emozioni, la gioia e gli innumerevoli significati che loro hanno trasmesso a me, facendomi riscoprire il senso del vivere e il valore della professione che ho scelto proprio in quei giorni di luglio di vent’anni fa. Ho avuto l’onore di dirlo in diretta a Elena Giuliani ed è stato un momento lacerante, perché ricordo ancora dov’ero quel maledetto 20 luglio, ricordo i giorni della Diaz e di Bolzaneto, Lilli Gruber e l’edizione del Tg1, direttore Albino Longhi, in cui andò in onda il filmato del massacro cileno in Corso Italia, ai danni di persone inermi e del tutto pacifiche. Solo quest’anno ho capito cosa abbia voluto dire quella sconfitta epocale e quali conseguenze tremende abbia comportato, a cominciare dalle guerre in Afghanistan e in Iraq, con il primo che è tornato nelle mani dei talebani a vent’anni di distanza da una cacciata cui non ha mai fatto seguito una vera operazione di nation-building, come ha ammesso in agosto lo stesso Biden in un raro momento di sincerità. È stato poi un anno ricco di incontri, non solo per me. Diciamo che è stato l’anno in cui chi aveva dieci-undici anni in quei giorni del 2001 è voluto andare alla scoperta dei propri fratelli maggiori, e in questo dialogo intergenerazionale abbiamo trovato un oceano di ascolto, di comprensione, di volontà di raccontare e di passare il testimone, tanto che siano stati noi a chiedere loro di non lasciarci soli, di abbracciarci, di costruire insieme una comunità perché di quegli ideali, di quelle battaglie, di quell’idea che un altro mondo sia possibile e necessario ne abbiamo più che mai bisogno per provare a edificare una società migliore. È stato l’anno in cui la nostra generazione ha ritrovato la politica. Lontano dai palazzi, dalle rappresentanze ufficiali, dal sistema ma all’interno di qualcosa di più grande, di globale, di un pensiero che attraversa i paesi e i continenti e ci rende uomini e donne protagonisti del nostro tempo e di un desiderio di pace, di sviluppo sostenibile, persino d’amore che per troppo tempo è stato calpestato e irriso dal potere mentre invece è una componente essenziale per ritrovare la serenità di cui abbiamo bisogno, specie dopo la terribile pandemia che si è abbattuta sul pianeta.

È stato, per me che sono un giornalista e vivo grazie alle parole, l’anno in cui ho trovato, forse, le parole giuste per esprimere tanti sentimenti che non ero mai riuscito a confessare, neanche a me stesso: per paura, per seguire la massa, per non uscire da una sorta di comfort zone che ha finito per intrappolarmi per un periodo interminabile. Ora che tutto è finito, al contrario, mi sento libero, e questa storia che arriva da vent’anni fa sembra, non solo a me, incredibilmente attuale, anche perché quei corpi che furono portati fuori dalla Diaz in condizioni disumane costituiscono la metafora perfetta delle condizioni in cui è ridotta la nostra Italia disintegrata e abbrutita. E dalle celle di Bolzaneto riaffiorano gli insulti, le offese, le minacce, quella barbarie che coinvolge attivamente anche le donne, soprattutto nei confronti di altre donne, e che giunge fino a oggi, come ha raccontato più volte l’ex ministra Lucia Azzolina, fatta oggetto,  sui social e non solo, di insulti disumani che avrebbero messo in ginocchio chiunque. Ecco, anche i 5 Stelle vengono da lì, dalla progressiva scomparsa della rappresentanza politica, dal distacco sempre più acuto dei cittadini dai palazzi del potere, dalla sordità delle classi dirigenti, dalla mancanza di attenzione e rispetto nei confronti delle sofferenze degli ultimi e degli scarti della società. Non li ho mai votati, ma non penso che saremmo migliori senza di loro.  E spero che il campo largo di centrosinistra di cui parlano spesso Letta e Conte si concretizzi, nell’interesse della collettività, anche perché questa destra in cui qualcuno ancora vuole abolire il reddito di cittadinanza e, cosa ancor più grave, il reato di tortura, sinceramente, mi spaventa.
A proposito del reato di tortura, nulla sarebbe stato possibile se lungo il mio cammino non avessi incontrato alcuni magistrati e magistrate che hanno difeso la forza del diritto contro il diritto della forza, che hanno messo in gioco se stessi, la propria carriera e, forse, la propria stessa vita pur di far prevalere un’idea di umanità e di giustizia, che non si sono mai arresi alla barbarie e che hanno amato il prossimo al punto di riuscire a coniugare il rigore che deriva dalle loro esigenze professionali con la dolcezza che deriva dall’aver visto negli occhi la sofferenza più estrema e nell’essersi battuti fino in fondo dalla parte del torto, ossia, in questo caso, della forma più nobile di ragione e di verità. Proprio come gli avvocati e le avvocatesse, a cominciare da Alessandra Ballerini, che oggi difende la famiglia Regeni mentre vent’anni fa, giovanissima, si batteva con tutto il cuore al fianco dei ragazzi e delle ragazze massacrate in una delle vicende più drammatiche che si ricordino nella storia dell’Occidente. Cito lei per citarli tutti, senza dimenticare nessuno: alcuni li ho conosciuti e intervistati e hanno rappresentato degli incontri ugualmente splendidi, ricchi di gentilezza, di passione, in cui si vedeva chiaramente quanto la vicenda li avesse segnati ma non resi peggiori, non essendo capaci di alcuna forma di cattiveria o di disumanità.
Qualche settimana fa abbiamo assistito alle nuove nomine in RAI. Non entro nel merito ma il mio lavoro mi ha portato a contatto con alcuni “giornalisti giornalisti” che nella notte della Diaz, seguendo gli insegnamenti di Roberto Morrione, hanno svolto fino in fondo il proprio dovere, contribuendo ad accertare la verità dei fatti e smentendo le assurdità di chi parlava di sangue rappreso e ferite pregresse e compiva affermazioni sulle quali è opportuno sorvolare. Anche a questi colleghi voglio profondamente bene, perché mi hanno ricordato il senso del nostro mestiere, costituendo per me esempi e punti di riferimento imprescindibili. Morrione diceva: “Fai quel che devi, accada ciò che può”. È un insegnamento da tener sempre presente, conservandolo nella mente e nel cuore.

Penso, poi, alla casualità della vita: a chi è scampato alla Diaz per puro miracolo e a chi è rimasto coinvolto in quell’inferno, magari per essere andato a recuperare uno zaino o per essersi fermato a chiacchierare con qualcuno o a lavarsi i denti. E penso ai testimoni e alle testimoni: a chi ha trovato, magari dopo vent’anni, la forza e il coraggio di parlare e a chi ha preferito non farlo più, per evitare altro dolore, altro strazio, altra sofferenza. Ne ho il massimo rispetto e, in alcuni casi, devo dire che ho imparato moltissimo anche dai loro no, dai loro tormenti e dalle loro lettere private che valgono più di ogni intervista.

Penso a questo 2021 che si avvia alla conclusione e rifletto sul valore di ogni singolo giorno, sull’essenza di questa nostra vita che continua, fra alti e bassi, e che ci regala soddisfazioni a volte inaspettate. Penso a una donna che ha deciso di sfidare le proprie lacrime e di non lasciarsi più sopraffare dai propri sentimenti: incontrarla ed esserne oggi amico è un privilegio che mi ripaga di qualunque sacrificio. So di dovermi meritare ogni attimo, da adesso in poi, ogni attestato di stima. So di custodire in me un patrimonio di umanità che vale più di ogni altra cosa e di doverlo condividere, altrimenti tutto il mio lavoro non avrà avuto alcun senso e la mia persona sarà solo un monumento all’egoismo. Ognuno ha portato la sua storia, tutte queste storie compongono poi la Storia e in questo disegno così enorme c’è, nel suo piccolo, anche la mia vicenda di testimone del tempo. Il viaggio continua, in compagnia dei tanti e delle tante che lo hanno intrapreso insieme a me, spesso in contemporanea, e che hanno contribuito con opere preziose a custodire il valore della memoria e a trasmetterlo a chi non c’era e a chi verrà dopo di noi. Il viaggio continua e non avrà mai fine, perché quando hai visto Genova hai capito anche di averne bisogno in ogni circostanza, pure quando ti occupi di tutt’altro, perché il passato spiega il presente e, il più delle volte, contiene in sé il nostro futuro.

Dedico queste riflessioni a cinque donne meravigliose (senza nulla togliere ai tanti uomini eccezionali, a cominciare da Mark Covell, Vittorio Agnoletto, Lorenzo Guadagnucci e dai PM Enrico Zucca e Roberto Settembre, cui devo moltissimo e che ringrazio per tutto ciò che mi hanno trasmesso, ciascuno a modo suo) che ho avuto l’onore di conoscere e intervistare: Stefania Ascari, figlia di una bidella e di uno spazzino, oggi parlamentare della Repubblica, capace come pochi di farsi carico dei problemi degli altri, lei che conosce bene l’affanno e la paura di non farcela; Enrica Bartesaghi, un esempio di coraggio e passione civile, una persona tenacissima che è stata in questi anni la madre non solo di Sara ma un po’ di tutti noi; Jennifer Ulrich, un’attrice di una gentilezza e di una disponibilità unica, la magnifica Alma Koch di “Diaz”, i cui occhi trasmettono un senso di fierezza, dignità e voglia di resistere nonostante tutto il male che sta subendo, sia pur solo a livello cinematografico, davvero sconvolgenti; Patrizia Petruzziello, la PM del processo di Bolzaneto, per le parole indimenticabili che mi ha rivolto in privato e per tutto ciò che ha fatto e continua a fare in un mestiere difficile e bisognoso, oggi più che mai, della sua squisita dolcezza; Lena Zühlke, uno degli incontri più importanti della mia vita, la donna che ha cambiato per sempre il mio modo di pensare e di intendere le cose, colei che semi-morta chiedeva ad altre vittime della Diaz se fossero vive e che mi ha donato la forza di andare avanti anche nei momenti più difficili. Al termine del suo racconto, ho avvertito in me una sofferenza profondissima e un infinito amore. Perché sentirla parlare dell’importanza della solidarietà, dopo l’orrore che subito, significa recuperare la fiducia nell’essere umano, il che di questi tempi è tutto.
P.S. Un abbraccio a Gino Strada, che adesso ci guarda da lassù. E un abbraccio, fortunatamente terreno, a Mimmo Lucano, perché ancora una volta siamo chiamati a schierarci dalla parte del torto, ossia della ragione più autentica.

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