Ritter, Dene, Voss. I funambolismi tragicomici di Thomas Bernhard in scena al Teatro Sociale di Brescia

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Brescia, Teatro Sociale – Quando si mette in scena Bernhard è superfluo annunciarlo come “lettura contemporanea” come è avvenuto al Centro Teatrale Bresciano. Si rischia di cadere nella tautologia. Quale autore più attuale e più “contemporaneo” del cattivissimo e geniale Thomas Bernhard, il demolitore di tutte le ipocrisie e mostruosità di un mondo votato trionfalmente all’auto-annichilimento? Autore scomodo, difficilmente (e per fortuna!) inquadrabile e classificabile, l’austriaco Thomas Bernhard continua a essere riscoperto e riproposto sia a teatro (al Piccolo Teatro di Milano è da poco andato in scena Antichi Maestri, adattamento del romanzo “Alte Meister” della compagnia Lombardi-Tiezzi, mentre a gennaio, in piena pandemia e con i teatri sbarrati, abbiamo potuto vedere su Rai5 la prima assoluta di Piazza degli eroi, spettacolo allestito da Roberto Andò al Teatro Mercadante di Napoli), sia nelle librerie (Einaudi dovrebbe dare finalmente alle stampe il sesto e ultimo volume del Teatro mentre Adelphi si appresta a far uscire Ungenach, facendo sperare in una riedizione anche di altri capolavori di Bernhard, da anni fuori catalogo, come Gelo e La fornace).

In questo testo del 1984, scritto per tre grandi attori della compagnia di Claus Peymann (Ilse Ritter, Kirsten Dene e Gert Voss), ritroviamo, naturalmente tutte le ossessioni di Bernhard, nonché la sua sorniona arte della provocazione e dell’esagerazione che non risparmia nulla neanche al teatro, anzi soprattutto al teatro, visto come salvezza o perversione, a seconda di dove ci si colloca in quella zona di confine rasentante la follia, il nonsenso, la megalomania. La partitura è quella di sempre, sapientemente costruita su un crescendo di ripetizioni e variazioni sugli stessi temi, nonché su rimandi e allusioni ad altri testi (drammaturgici o narrativi) che tramortiscono lo spettatore/lettore. D’altronde, si va a teatro a vedere una messinscena di Bernhard precisamente perché si vuole essere storditi e fustigati. Chi è in cerca di rassicurazioni dovrebbe rivolgersi altrove.

Siamo nella sala da pranzo dei fratelli Worringer. Le due sorelle attrici, Ritter e Dene si stanno preparando ad accogliere il loro fratello filosofo, Voss-Ludwig che la maggiore, Dene, aveva voluto far uscire a tutti i costi dal manicomio di Steinhof per riportarlo a casa, dove avrebbe potuto prendersene cura con tutta la fanatica venerazione che la contraddistingue, battendo a macchina i suoi testi filosofici (escogitati “al culmine della pazzia”, come dice Ritter), facendogli indossare le rinomate mutande Montblanc, “le cosiddette mutande di cotone di montagna” o rimpinzandolo con i famosi krapfen viennesi fragranti, il suo dolce preferito. I tre fratelli si stanno in realtà torturando a vicenda da anni, autocondannatisi al carcere a vita del “catafalchismo” (gabbia fisica e mentale toccante in sorte a tutti i consanguinei che non fanno in tempo a sfuggire all’inferno dell’origine, topos bernhardiano per eccellenza: “da trent’anni spalmiamo la stessa roba sullo stesso pane / e beviamo lo stesso tè / non trovi / che dovremmo ammazzarci / già solo per questo”). I ricordi, i rimpianti, le frustrazioni e le reciproche accuse si accumulano in un vortice verbale nel quale è impossibile distinguere vittime e carnefici, forse perché lo sono tutti, contemporaneamente, come in un loop distopico che li condanna a percorrere un sentiero di autodistruzione e follia (“Non facciamo che passare / da un errore all’altro”). Nessuna possibilità di salvezza, ovviamente. La filosofia, o più generalmente il pensare, perseguito con il massimo accanimento e portato alle ultime conseguenze conduce inevitabilmente o al suicidio o al manicomio mentre l’arte da tempo ormai non ha più niente da dire, e men che meno potrebbe dispensare rimedi al mal di vivere o all’imbroglio infinito del vivere (“il nostro tempo non entra nella storia dell’arte / come macchina d’infamia sì / come disastro sì / come disastro dell’arte / in cui fra cent’anni la gente getterà lo sguardo / e da cui sale solo un tanfo / nient’altro / nient’altro / nient’altro”).

Bernhard contemporaneo, ultracontemporaneo, Bernhard necessario come antidoto al grottesco rumore di fondo di un mondo che ci vuole soffocare e schiacciare sotto la cappa della superficialità e dell’idiozia imperanti, dell’industria e dei guru del ‘self-help’ e del successo a tutti i costi, dell’ottimismo gastronomico e consumistico, della tirannia dell’autorealizzazione:

 

Autorealizzazione

che parola orribile

dappertutto questa parola schifosa

realizzare se stessi

non c’è niente di più ripugnante

non significa assolutamente niente

la parola autorealizzazione

ma tutti la ripetono come pappagalli

non importa uno chi è e cosa fa

è realizzato comunque

è se stesso

non c’è parola più assurda

e più ripugnante

della parola autorealizzazione

e tutti l’usano continuamente

Spettacolo riuscito nella regia onesta (anche se, a tratti, un po’ didascalica) di Elena Sbardella che si è avvalsa dell’interpretazione senza sbavature di Ludovica Modugno, Gianluca Ferrato e Franca Penone. Applausi meritati che invocano sempre più Bernhard sui palcoscenici!

 

Ritter, Dene, Voss

di Thomas Bernhard (in scena: 08/06/2021 – 13/06/2021)

traduzione Luigi Reitani

regia Elena Sbardella

con Ludovica Modugno, Gianluca Ferrato, Franca Penone

scene e costumi Carlo De Marino

luci Cesare Agoni

musiche Gianluca Misiti

assistente alla regia Emanuele Maria Basso

produzione Centro Teatrale Bresciano

Fonte: http://www.inscenaonlineteam.net/2021/06/21/ritter-dene-voss-i-funambolismi-tragicomici-di-thomas-bernhard-in-scena-al-teatro-sociale-di-brescia/


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