Il Giorno e la Notte: un gesto collettivo d’amore per la vita e per il cinema, durante la paralisi del Mondo

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Il film

Il Giorno e la Notte è il primo film girato mentre il mondo era in lockdown e tutti i set cinematografici erano chiusi.
E’ il primo esempio di film a distanza, dove il regista, da casa sua, ha coordinato il lavoro degli attori, a casa loro, a distanza, nel rispetto delle restrizioni.
Diretto da Daniele Vicari, è stato realizzato con gli attori Dario Aita, Elena Gigliotti, Barbara Esposito, Francesco Acquaroli, Isabella Ragonese, Matteo Martari, Milena Mancini, Vinicio Marchioni, Giordano De Plano; e con i produttori Andrea Porporati e Francesca Zanza.

Il Giorno e la Notte è una produzione Kon-Tiki Film, sceneggiatura di Daniele Vicari e Andrea Cedrola, fotografia di Gherardo Gossi, scenografia di Beatrice Scarpato, costumi di Francesca Vecchi e Roberta Vecchi, suono in presa diretta di Alessandro Palmerini, script supervisor Maria Vittoria Abbrugiati, montaggio del suono e mix di Marco Saitta, montaggio effetti sonori Francesco Albertelli, montaggio Andrea Campajola, musiche originali di Teho Teardo.

Distribuito in Italia e all’estero da Fandango, il film sarà disponibile in esclusiva su RaiPlay dal 17 giugno 2021.

Sinossi

A Roma, in un tardo pomeriggio qualsiasi, televisioni e radio interrompono le programmazioni per trasmettere un comunicato nazionale: un probabile attentato chimico-batteriologico minaccia la città. È necessario che tutti si rechino nelle proprie case, o restino nei luoghi chiusi in cui si trovano. Le strade devono essere svuotate, i negozi chiusi. Potrebbe trattarsi di un falso allarme, ma i cittadini devono allinearsi con le decisioni di governo e forze armate.

Al momento dell’allarme, Anna (Elena Gigliotti) è al telefono con il produttore di un suo spettacolo teatrale, perché è una giovane attrice inquieta. E’ raggiunta in casa dal fidanzato, Manfredi (Dario Aita), che fa il suo stesso mestiere ma, al contrario di lei, già gode di notevole fama e ha attenzioni solo per la propria carriera, trascurando Anna, tanto che neppure ha letto il copione scritto da lei. Sarà costretto a farlo, in quelle ore di convivenza forzata.

La notizia del possibile attentato sorprende Marco (Vinicio Marchioni) nel suo laboratorio di falegnameria, dove bussa alla porta Marcella (Milena Mancini): una bella donna che ha appena lasciato Sergio (Giordano De Plano), suo marito e migliore amico di Marco. Quest’ultimo, segretamente innamorato di Marcella, trascorre l’isolamento insieme a lei, schiacciato tra una passione decennale mai confessata e la fede in un’amicizia messa a dura prova dalle circostanze.

Andrea (Francesco Acquaroli) e Beatrice (Barbara Esposito) hanno vissuto un dolore indicibile che li ha allontanati. Lei, poi, ha avuto un’ altra relazione, non ancora del tutto chiusa; lui si è chiuso in se stesso e a ha perso il lavoro, senza confessarlo alla moglie. Il coprifuoco li costringe a passare un giorno e una notte insieme, l’una di fronte all’altro.

Ida (Isabella Ragonese) è una donna solare che rivela un entusiasmo non comune per la vita. Alla stessa maniera, affronta la storia appena nata con Luca (Matteo Martari), un ricercatore universitario che si trova in Veneto, dove lei sta per raggiungerlo. Ma nel momento di partire, viene fermata dalla polizia e obbligata a tornare a casa. Attraverso telefonate e video, Ida e Luca percorrono, a distanza, tutte le sfumature di un amore.

Questi otto personaggi sono costretti, in un giorno e una notte, senza scampo, a comprendersi o a perdersi.

L’insostenibile leggerezza di Daniele Vicari

Cosa ci è successo durante il lockdown, tra marzo e maggio del 2020? Cosa siamo stati in grado di sopportare e cosa non abbiamo tollerato, in quel torpore privato della libertà e minacciato dall’aria che respiravamo?

Per questa parte del mondo nel quale viviamo (la parte che ha costruito democrazie e costituzioni e normative che regolano le nostre vite secondo presupposti di eguaglianza, libertà e giustizia, anche se non sempre rispettati), il lockdown è stato vissuto con unanime stupore.

Per quella parte del mondo che sopravvive a se stessa, tra violazioni quotidiane dei diritti umani e guerre e morti e altre malattie (la parte maggiore della popolazione del pianeta), il lockdown o non si è potuto vivere perché altri allarmi mettevano già in pericolo tutti, o perché per governi e forze dell’ordine era impossibile controllare e costringere alla clausura popolazioni enormi, o, più semplicemente, è stato vissuto come una atrocità, tra le altre.

Nell’Occidente illuminato, quei mesi sono stati, comunque, un momento unico.

Daniele Vicari, in questa parte di mondo impreparato alle costrizioni, sia pur sanitarie, ha creato un set virtuale e ha fatto un film che sembra girato in un normale momento della vita, ma non è così.

Vicari è un regista potente, nel senso più ampio del termine: sa usare il mezzo cinema perché lo ama sinceramente, lo conosce e sa applicare la tecnologia al progredire del tempo e perché la scuola di cinema che ha fondato con i suoi collaboratori lo porta a sondare quotidianamente le innovazioni delle immagini in movimento. E sa entrare nelle fondamenta delle persone, perché si guarda attorno.

Nel suo lavoro di autore, Vicari affronta l’insostenibile peso di un’amicizia che si spezza; accompagna le insostenibili traversate di esseri umani alla ricerca di vita; fa sprofondare lo spettatore negli abissi della più insostenibile violazione dei diritti umani in un Paese democratico dopo la seconda guerra mondiale; scruta insostenibili solitudini nei sottosuoli dei laboratori tecnologici d’Italia; porta per mano lo spettatore a seguire l’insostenibile sfinimento di una giovane donna per eccesso di lavoro e le insostenibili violenze cui è sottoposta l’amica -“sorella”; ripercorre la vita di un coraggioso giornalista insostenibilmente ucciso dalla mafia siciliana; con affetto e fantasia si unisce a uno tra i massimi scrittori italiani, dando una decisiva sterzata alle rassicuranti strade della tv di Stato; nel suo primo romanzo, guarda in faccia, nel cervello, nel cuore di una famiglia, l’insostenibile uccisione di un figlio e di un fratello di 20 anni.

Vicari lavora con la gentilezza di chi interroga la vita che gli passa davanti, insostenibile e leggerissima. E mentre racconta il mondo e le sue storture, gli errori del Potere, gli abusi sulle persone e sulla società, senza delegare nulla di quel che fa e assumendosi tutta la responsabilità di ciò che vuole dire e dice, penetra nei sentimenti delle donne e degli uomini che racconta, con rispetto e sincerità.

Il regista di Il Giorno e la Notte ha anche molti amici: persone con le quali condivide passioni, mestieri, interessi, ideali. E’ un homo faber nell’accezione rinascimentale dell’applicazione pratica e tecnica che diventa arte e conosce e interroga il presente, fino allo sfinimento perché è anche un intellettuale, che mette al servizio di chi guarda ciò che sa, con generosità e condivisione, per provare a dare risposte, dove le risposte sono più insostenibili, anche quando leggere.

Daniele Vicari, con i collaboratori di una vita e con attori mirabili del cinema italiano (i quali si sono esposti, disposti a mettere in gioco la loro stessa funzione d’ attore, per trasformarsi in tecnici del cinema), nella solitudine del virus, nel tempo sospeso e nello spazio compresso della Pandemia, non è mai stato solo.

Il Giorno e la Notte è un film vitale, senza essere vitalistico, un atto d’amore verso il cinema, come forma d’espressione che usa la tecnica per farsi arte senza arrendersi alle difficoltà; e verso l’essere umano, così fragile eppure così adattabile, al di là di quanto egli stesso creda. In queste quattro storie, che vanno dalla tragedia alla commedia, passando per il romance e il kammerspiel, si possono rivivere tutte le sfumature di incertezza, gioia, dolore, amore, comicità e odio verso noi stessi e verso chi ci sta più vicino. Tutti questi sentimenti ci hanno accompagnati nei mesi scorsi, amplificati e messi a nudo da una vita coatta che non conoscevamo. Quei mesi, rivisti sullo schermo, nello spazio e nel tempo sintetici di un film che racconta un giorno e una notte soli, assomigliano a noi, nel modo più autentico, talmente sincero, nell’immediatezza dell’immagine che non nasconde nulla, da risultare insostenibili e leggere assieme.

Nell’intervista che segue, si cerca di capire il percorso estetico ed etico dell’ultimo film che ogni film di questo regista ha, immancabilmente, nel bene e nel male.

Abbiamo fatto questo film perché il ‘distanziamento sociale’ non si risolvesse in ‘isolamento sociale’ ”.

Come avete girato Il Giorno e la Notte?
Lo abbiamo girato stando ciascuno a casa propria. Abbiamo inventato un set virtuale, gestito attraverso una piattaforma web che ci ha permesso di controllare tutta la comunicazione, mandando a casa di ogni attore un kit di ripresa, audio e video, e ciascun attore lo ha gestito personalmente. Però, prima di arrivare a questo, abbiamo fatto una lunga preparazione a partire dalla scrittura: sempre, tutto, a distanza. Quando è scattato il lockdown, con i colleghi della Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté, abbiamo creato una sorta di didattica a distanza: qualcosa di particolarmente complesso, dal momento che il cinema a distanza è pressoché impossibile da realizzare. Ma, mettendo in atto i programmi della scuola, abbiamo capito di poter fare questo lavoro, con criteri tecnicamente corretti, quindi professionali. Abbiamo mutuato, poi, la metodologia della didattica a distanza della scuola, anche per la produzione di un film. Con Francesca Zanza e Andrea Porporati (docente della Gian Maria Volonté), abbiamo creato una casa di produzione, la Kon-Tiki Film, con la quale abbiamo prodotto Il giorno e la notte (un film di finzione) e Aria (un documentario ambientato in tutto il mondo, durante il lockdown).

Abbiamo messo insieme le nostre forze, per evitare di rimanere schiacciati da quello che stavamo vivendo durante il lockdown. Non è un gesto di presunzione, ma il tentativo di non rimanerne schiacciati, in quel momento, dalla paralisi del Mondo. E lo abbiamo fatto anche divertendoci e il divertimento ha reso possibile un’opera sulla carta impossibile. Ma, al di là di ogni giudizio sul film, questo divertimento liberatorio ci dà la soddisfazione di poter constatare che non abbiamo buttato via quel tempo e di averlo messo a disposizione di tutti attraverso il nostro lavoro.

Lavora sempre con gli stessi collaboratori, tutti professionisti del cinema. Per costruire questo film, a distanza gli uni dagli altri, avete sentito più forte, o più sfuggente l’empatia che si crea solitamente su un set?
Il film è stato realizzato da un gruppo di persone molto motivate e coinvolte intimamente nel lavoro. Questo approccio ci ha permesso di superare le difficoltà oggettive, tecnologiche che, comunque, non sono mancate. La regia a distanza esiste già, in televisione. La cosa molto difficile, nel cinema a distanza, è manovrare la macchina da presa e lavorare con gli attori. A queste difficoltà, va aggiunto il fatto che non avevamo una troupe, quindi gli attori sono diventati il fulcro attorno al quale si è costruita tutta la lavorazione. E’ per questo che, prima di cominciare le riprese, con Gherardo Gossi (il direttore della fotografia), con le sorelle Vecchi (le costumiste), con Beatrice Scarpato (la scenografa) e con Alessandro Palmerini (il fonico), abbiamo fatto molte prove a distanza per mettere a punto la metodologia di lavoro. Facendo le prove, gli attori sono entrati nella gestione tecnologica di questo set virtuale e, piano piano, hanno affinato la tecnica che ci ha permesso di controllare la messa in scena della ripresa. Una cosa del genere, per ammissione degli attori stessi, è stata un’esperienza irripetibile, perché abbiamo tutti sentito la mancanza della troupe. I compiti dei professionisti del cinema, sul set, sono molteplici, molto precisi, specifici, mentre noi avevamo soltanto le nostre forze, ciascuno a casa propria. La lavorazione di Il giorno e la notte, cioè, si è basata sull’ “invenzione” di una tecnica cinematografica inusuale, incidentale, unica e propria soltanto di questa esperienza. Tutto ciò, chiaramente, ha influenzato anche il linguaggio del film. L’esperienza, nel complesso, è stata molto interessante, perché è balzata agli occhi la specificità di essere attori, con competenze particolari, rispetto alla molteplicità delle varie funzioni che qui gli attori hanno dovuto svolgere, oltre alla loro professione. La loro unicità e molteplicità, espresse in modo simultaneo, ha coinvolto profondamente gli interpreti del film, al punto che, per esempio, Isabella Ragonese ha confessato: “L’ultima cosa a cui pensavo era recitare”, perché prima di recitare, bisognava predisporre il set. Questa lavorazione precedente sul ‘profilmico’ (tutto ciò che sta davanti alla cinepresa pronto per essere filmato: oggetti, volti, corpi, spazi interni ed esterni, prima della loro elaborazione cinematografica, ndr.) è stata un’esperienza entusiasmante, perché nessuno di noi l’aveva vissuta prima, quindi abbiamo dovuto creare un linguaggio comune, che si è riversato nel film e caratterizza anche il linguaggio audiovisivo, fatto della stessa sostanza del linguaggio cinematografico. Un altro fatto interessante, emerso girando in queste modalità, è la vicenda di vita di uno dei personaggi, in quel periodo. Nell’episodio di commedia con Vinicio Marchioni e Milena Mancini, è inserita la sotto storia del marito del personaggio di Milena, che vive solo, quel giorno e quella notte. Giordano De Plano, l’attore, in quel momento viveva e lavorava da solo, veramente. E’ stata la prima storia che abbiamo girato ed è stato un inizio scioccante, perché Giordano percepiva la propria solitudine in maniera molto forte, dirompente. Quindi, la sua storia è un’esperienza di solitudine nella solitudine.

Quindi, avete constatato che questo modo di fare cinema funziona. Perché, se lo spettatore non sa tutto quello che ci hai appena raccontato, non si accorge di questo sforzo comune. Pensa che quella di Il Giorno e la Notte resterà un’esperienza isolata?
Probabilmente hanno ragione gli attori di Il Giorno e la Notte quando dicono che è un’esperienza irripetibile. Per fare un esperimento di questo genere c’è bisogno di una motivazione molto forte e di una disponibilità totale da parte degli interpreti a svolgere ruoli che solitamente non svolgono. Alla base di tutto questo, la motivazione era il voler reagire a una paralisi totale del nostro settore, quello del cinema, e dimostrare che anche in Pandemia saremmo stati in grado di esprimerci. Ovviamente tutto questo, come ho accennato, influenza l’intero linguaggio del film. Gli spettatori più attenti, magari, si renderanno conto di un linguaggio differente da quello consueto. Il linguaggio del cinema, da sempre, nasconde il meccanismo che sta alla base della sua elaborazione. Se non lo nascondesse, lo spettatore si distrarrebbe in continuazione dal filo narrativo per occuparsi degli strumenti che compongono l’immagine in movimento. Questo film, a parte un’elaborazione particolare, adotta una forma classica del racconto. Se lo spettatore viene catturato maggiormente dalla narrazione, piuttosto che dal modo in cui è realizzata, vuol dire che l’esperienza è riuscita e che abbiamo ottenuto quello che volevamo.

Veniamo ora a una questione più sostanziale che formale. Italo Calvino diceva che la letteratura neorealista partiva dall’ ‘urgenza’ di raccontare cosa stava accadendo all’indomani della guerra e cosa era accaduto durante la guerra. Lo stesso ha fatto il cinema neorealista, che è stato parte integrante della Storia del cinema mondiale per come raccontava le cose, oltre che per il cosa. Voi avete sentito, durante il un’urgenza’ simile a quella di cui parla Calvino?
Non volevamo diventare ‘testimonial’ di qualcosa, ma neanche rinunciare alla nostra funzione culturale e artistica: molti giornali ci chiedevano di fare dichiarazioni sul blocco di qualsiasi possibilità di fare e vedere il cinema. Si dava per scontato che, in quel momento, chi facesse cinema o altre forme di espressione artistica, dovesse mettersi a disposizione degli accadimenti, rinunciando alle proprie attitudini. Noi, questo ragionamento non lo abbiamo accettato. Noi abbiamo rifiutato culturalmente, ideologicamente, sentimentalmente, la nozione di ‘distanziamento sociale’. Perché una cosa è il ‘distanziamento sociale’, tutt’altra cosa è il ‘distanziamento sanitario’. Quest’ultimo è ed è stato doveroso rispettarlo. Ma il ‘distanziamento sociale’, che nasceva da quello sanitario, si è trasformato in un ‘isolamento’ degli individui, cosa che noi abbiamo combattuto con tutte le forme e le tecnologie che avevamo a disposizione, senza mettere in pericolo nessuno, ovviamente. Fare cinema, in quel momento, è stata una questione vitale, un atto vitalistico.

A rivederlo dopo un anno dal lockdown e dalla sua realizzazione, questo film ha una sua autonomia e una sua vitalità a prescindere dal momento in cui lo abbiamo raccontato. Per altro, eravamo consapevoli che era necessario sfuggire dallo schiacciamento che ci avrebbe portato raccontare unicamente la Pandemia, per cui dal punto di vista drammaturgico non abbiamo usato temi legati al Covid19. E’ stato un esperimento, che gli spettatori ci diranno se e come siamo riusciti a realizzare. Il messaggio che volevamo dare era quello che non è necessario rinunciare alla propria vita per difendere la propria salute, questa è una contraddizione in termini.

Il ‘distanziamento sociale’ di cui parla, sembra corrispondere a un ‘distanziamento comunicativo’. E’ come se tornasse qui l’idea di Michelangelo Antonioni sulla distanza emotiva tra le persone, che non consente loro di comunicare i sentimenti. Antonioni disse, riducendo all’osso il suo discorso, (fatto quando vinse il Festival di Cannes con L’Avventura, 1960), che nella società esiste uno ‘scollamento’ insanabile tra progresso tecnologico ed evoluzione della comunicazione dei sentimenti. E’ anche questo quel che volevate raccontare?
Noi siamo partiti da una considerazione semplice: siamo abituati a vivere i sentimenti, anche nei rapporti di coppia, con un ampio margine di libertà. Cosa succede se da un giorno all’altro questa libertà viene meno? I sentimenti restano gli stessi o con la limitazione della libertà cambiano, finiscono in qualche luogo sconosciuto che noi non abbiamo mai sperimentato? Queste domande nostre, le abbiamo volute rivolgere al pubblico. C’è anche la consapevolezza che le condizioni di cattività che abbiamo vissuto per mesi possono diventare parossistiche, alle volte, quindi possono avere risvolti anche tragicomici. Gli esseri umani, se sono costretti a vivere insieme, a un certo punto, da qualche parte, in qualche modo, prima o poi, arrivano a scontrarsi. Ecco, cosa succede quando gli esseri umani si scontrano, come misurano e usano la mancanza di libertà? Questo è alla base del racconto che abbiamo scritto con Andrea Cedrola e condiviso con gli attori. Le lunghe sessioni di prove fatte a distanza, con gli attori, ci hanno permesso di mettere a fuoco molto bene i personaggi e i conflitti tra loro. La prigionia, da questo punto di vista, ci ha aiutato: ci ha permesso di non perdere mai di vista il racconto e la sua costruzione e di mantenere una coerenza di fondo nella narrazione, e tutto dipende da come noi guardiamo e interpretiamo la storia. Il film, con le 4 storie di 4 coppie imprigionate nella città di Roma per un giorno e una notte a causa di un attacco chimico, ha un’unità di tempo e di luogo corrispondenti. Durante questo giorno e questa notte, i sentimenti reciproci dei personaggi mutano e diventano la cosa fondamentale con la quale ciascuno di loro deve fare i conti. I sentimenti, così come l’assenza dei sentimenti, sono gli elementi basilari, profondi, che muovono ogni storia.

Qual è l’episodio più sincero, secondo lei: quale, tra i quattro, fa trapelare i sentimenti più autentici di quel momento?
Ovviamente, spero che tutte le storie siano sincere. Senza dubbio, essendo diversi i conflitti e i sentimenti che li generano, le storie più drammatiche arrivano a toccare le corde più profonde. Però, tanto la commedia dell’episodio con Marchioni e Mancini, quanto l’episodio tragico di Acquaroli ed Esposito, portano ad un livello di adesione degli spettatori ugualmente alto, pur essendo molto diverse. Le storie di Ragonese e Martari e di Aita e Gigliotti sono storie nelle quali i personaggi hanno una grande reattività emotiva e quindi si scontrano a un livello quasi non verbale, più astratto dello scontro verbale. Questi diversi livelli di comunicazione, fanno sì che lo spettatore sia coinvolto in diversi gradi di lettura della realtà, oltre che di emotività.

Quando siamo tornati a vivere in semi libertà, e ora in liberà quasi ritrovata, è come se avessimo rimosso quel periodo vissuto in cattività. Avete voluto raccontare anche questa rimozione?
Qualsiasi narrazione ci aiuta a elaborare un nostro vissuto. E’ chiaro che questa narrazione, fatta in una determinata condizione e in un determinato momento, si impregna dell’esperienza di quel momento e poi la restituisce nel tempo. Quello che stiamo vivendo in questa primavera-estate di un anno di Pandemia, si può definire una forma di rimozione: abbiamo tutti voglia di andare al mare, fare passeggiate in montagna, insomma riappropriarci di quella libertà che abbiamo sacrificato e perduto in questo anno e mezzo trascorso. E’ del tutto umano, persino giusto. La narrazione può fare qualcosa di nuovo, forse: dare una collocazione, ridare una forma a quello che abbiamo vissuto. Questo credo che possa essere liberatorio. Com’è liberatoria una commedia rispetto a un fatto reale tragico, com’è liberatoria una tragedia narrata rispetto a un lutto personale. Le differenti modalità di racconto (rese possibili anche da effetti visivi, sonori, di luce, di montaggio) di queste 4 storie possono aiutare le persone, che hanno vissuto ciascuna in maniera differente questo lungo periodo di cattività, a prendere le misure, le distanze, magari anche liberandosene. Detto ciò, questo è anche un film libero: qualunque spettatore lo può guardare con occhio disincantato e godere semplicemente come un’esperienza estetica. E questa, che piaccia o che non piaccia, è la funzione che oggi svolge il film.

Il film uscirà su RaiPlay, dal 17 giugno: soltanto sulla piattaforma quindi, o potremo vederlo anche in sala?
Il film sarà visibile su RaiPlay, in esclusiva, dal 17 giugno, ma avrà una serie di proiezioni in pubblico, quindi vivrà al di là della piattaforma. D’altra parte, sala e piattaforma, tendono ad escludersi, oggi. Abbiamo elaborato l’uscita del film quando eravamo chiusi in casa e ci è sembrato che RaiPlay, l’unica piattaforma libera e gratuita e alla quale tutti possono accedere senza avere un abbonamento, fosse il modo migliore per far vedere Il Giorno e la Notte a tutti gli italiani. Anche se il film è concepito cinematograficamente e, quindi, noi faremo di tutto per farlo esistere anche al cinema, ma nel tempo. La vita del film si è molto allungata, dopo questo strano periodo.


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