Partiti rissosi zittiti da Draghi

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Draghi è cosciente di tutte le difficoltà. Il governo di unità nazionale è una grande nave nella quale si aprono continue falle. Il presidente del Consiglio ha ben chiari i contrasti esistenti all’interno della sua vastissima maggioranza. Quando lo scorso 17 febbraio chiese il voto di fiducia al Senato usò una singolare perifrasi: il governo opera in «un nuovo inconsueto perimetro di collaborazione». SuperMario ha lanciato e lancia continui appelli all’unità e al senso di responsabilità, ma non pronuncia mai il nome di esecutivo di unità nazionale.

L’equilibrio è precario. Il centro-destra, il centro-sinistra, i populisti e i riformisti fanno fatica a convivere. Soprattutto tra Salvini e Letta la rissa è continua: sulle riaperture delle attività economiche, sui migranti, sulla giustizia, sul lavoro, sugli appalti, sui diritti civili, sulle tasse. Ogni tanto, in modo più o meno formale, interviene lo stesso Draghi per rimettere le cose a posto.

Al segretario della Lega che chiedeva di «riaprire tutto» subito ad aprile, ha risposto con «riaperture graduali», valutando «i dati» sulla riduzione degli infettati e dei morti causati dalla pandemia. Al segretario del Pd che chiedeva l’aumento delle tasse di successione per gli alti redditi in modo da finanziare «una dote» per diciottenni, ha replicato ripetendo: serve una riforma generale del fisco, ora «non è il momento di prendere i soldi ai cittadini ma di darli».

I partiti della grande coalizione, in particolare Lega e Pd, hanno un doppio problema: faticano a conciliare visioni e programmi contrapposti, si sentono schiacciati dal peso politico di Draghi. Il governo presieduto dall’ex presidente della Bce è un esecutivo tecnico-politico, il terzo della legislatura nato dalla debolezza dei partiti nell’affrontare il dramma dell’emergenza sanitaria, umana ed economica del Covid-19.

I partiti in grande sofferenza nella maggioranza di grande coalizione, presi dalla paura di scomparire e di deludere i rispettivi elettorati, lanciano in maniera anche estemporanea proposte alle volte nemmeno contemplate nel programma di governo. Sono “le bandierine” identitarie che, spesso, durano appena poche ore. Il tempo di una cortese ma perentoria replica del presidente del Consiglio e tutti si adeguano.

Il governo di unità nazionale traballa ma non cade. Anzi, tra Lega e Pd, c’è una gara a difenderlo, ad evitare ogni rischio di crisi. Enrico Letta rivendica: «Il governo Draghi è il nostro governo». Matteo Salvini applaude a SuperMario: «Siamo gli alleati più leali di Mario Draghi». Letta e Salvini vedono i sondaggi in discesa e non vogliono le elezioni anticipate. Intendono restare al governo per ottenere dei risultati da presentare ai loro elettori delusi e in fuga quando in autunno si voterà per rinnovare i sindaci di importanti città: Roma, Milano, Torino, Napoli, Bologna. L’allarme è forte. Giorgia Meloni, rimasta all’opposizione da destra, sta mietendo grandi consensi.

L’anno prossimo si voterà per il Quirinale. Tutti, anche se tra qualche mugugno interno, sono pronti ad eleggere Draghi presidente della Repubblica. Ma non è detto che SuperMario sia disposto a lasciare Palazzo Chigi, non completando l’impegnativo lavoro per realizzare le riforme e gli investimenti della ricostruzione post virus. Tutti quegli investimenti finanziati con circa 200 miliardi di euro stanziati dell’Unione europea per l’Italia.


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