“Leggi razziali? No, leggi razziste” Intervista a Giordana Terracina

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Leggi razziali? No, leggi razziste.  In occasione del Giorno della Memoria abbiamo intervistato Giordana Terracina, diplomata al Master Internazionale in Didattica della Shoah presso l’Università di Roma Tre, ha collaborato alla Fondazione Museo della Shoah di Roma, frequenta il dottorato di storia all’Università di Tor Vergata

Con l’entrata in vigore delle cosiddette Leggi razziali, molti studenti e professionisti di fede ebraica vennero esclusi dagli spazi sociali e culturali. Qual è stata la premessa storica che ha portato a questa vergogna?

Partiamo da una premessa. Io sono contraria alla dicitura “Leggi razziali”, perché razziale rimanda al concetto di razza e le razze umane, va ribadito, non esistono. Bisognerebbe invece parlare di leggi antiebraiche o leggi razziste. Il 14 luglio 1938 venne pubblicato sul Giornale d’Italia il Manifesto della razza, col titolo “Il fascismo e i problemi della razza”. Questo documento rappresentò la prima avvisaglia dell’intenzione del regime fascista di iniziare a introdurre una politica antiebraica. Dopo il Manifesto ci fu la Dichiarazione sulla razza del 6 ottobre 1938 da parte del Gran Consiglio, a cui seguirono le Leggi antiebraiche del 17 novembre del 1938 con il Regio Decreto n. 1728 intitolato “Provvedimenti per la difesa della razza italiana”. Uno dei punti fondamentali del Manifesto è proprio il primo, in cui viene avallato il concetto scientifico dell’esistenza delle razze umane: “l’esistenza delle razze umane non è già un’astrazione dello spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile per i nostri sensi”.

Come si arriva a tutto questo?

In Italia è sempre stato presente un antiebraismo di matrice cattolica, a cui, dai primi del 1900, con la guerra in Libia, si è affiancato un antisemitismo derivante da posizioni nazionaliste. Il binomio antisemitismo e questione razziale sorge a seguito delle guerre in Africa; basti pensare alle leggi sul madamato e la questione dei meticci, ad esempio. Si rafforzano così teorie che traggono origine dal darwinismo sociale. Viene poi creata una gerarchizzazione delle razze, finché si arriva al concetto di razza come concetto puramente biologico, legato al sangue. Il decreto-legge del 17 novembre 1938 n.1728, intitolato “Provvedimenti per la difesa della razza italiana” si apre con l’articolo relativo ai matrimoni e specifica i vari criteri per definire chi appartenga o meno alla razza ebraica. L’articolo 8 recita che “agli effetti di legge è ebreo colui che è nato da entrambi i genitori di razza ebraica anche se appartenga a una religione diversa da quella ebraica”. L’articolo prosegue ancora indicando che, in caso di matrimonio misto, se il figlio fosse stato educato con principi diversi da quelli dell’educazione ebraica, non sarebbe stato considerato ebreo. Qui emerge una contraddizione: non si evince più solo il concetto biologico di razza, ma anche quello spiritualistico che si rifà all’educazione. Questo articolo viene scritto sotto l’influenza della Chiesa, in modo da salvare l’ebreo che si andava a convertire, perché altrimenti sarebbe caduto il significato stesso della conversione come salvezza dell’anima.

C’era una differenza tra l’antisemitismo italiano e quello tedesco?

Sì, perché l’antisemitismo italiano, non si basava solo su motivazioni puramente biologiche, ma anche spiritualistiche, mentre l’antisemitismo di matrice tedesca si basava solo sull’appartenenza di sangue.

Quali sono state le conseguenze sulla popolazione ebrea italiana?

Nella legislazione antiebraica del ’38, come ci ha insegnato lo storico Sarfatti, si va a perseguire l’ebreo nei suoi diritti; vengono toccati il nome, il lavoro, i beni mobili e immobili. Si cerca cioè di escludere l’ebreo dalla vita sociale del Paese, lo si estranea da quella che doveva essere la società fascista che voleva creare Mussolini. Dietro queste scelte, c’è infatti tutto il discorso della costruzione del consenso, e l’ebreo doveva essere completamente estromesso. Sarfatti indica due fasi; la prima consiste appunto nella persecuzione dei diritti. Con l’arrivo dei tedeschi nel ’43, prende il via la seconda fase, con la persecuzione della vita stessa degli ebrei e le deportazioni verso i campi nazisti.

Che impatto provocarono questi provvedimenti?

Queste leggi hanno inciso su tutti i diritti degli ebrei, che vennero espulsi da ogni ambito della società. Vennero licenziati 720 dipendenti pubblici, 500 privati, 150 militari, 2500 professionisti. Furono 97 i professori (alcuni di fama mondiale) che vennero cacciati dalle università, 196 liberi docenti e 133 assistenti. Nelle scuole persero il posto 279 tra presidi e insegnanti. Ben 8 mila studenti vennero allontanati, 1500 erano universitari, 400 delle scuole medie e superiori, e 2500 delle elementari. Non fu più possibile adoperare testi scritti da autori e ricercatori ebrei, con una grande perdita per la società italiana. Gli ebrei furono allontanati anche dall’esercito, licenziati dall’amministrazione pubblica, dal campo dello spettacolo, da qualsiasi attività lavorativa e vennero creati albi speciali affinché potessero esercitare solo nei confronti dei propri correligionari. Per quanto riguarda le attività produttive e culturali, gli ebrei non poterono più dirigere giornali, confezionare o vendere uniformi militari, esercitare il commercio ambulante di articoli da toeletta o cancelleria, né lavorare preziosi, fare i commessi in oreficeria, i portieri, né gestire le copisterie o lavorare negli alberghi. Furono allontanati anche dal settore delle assicurazioni e da quello bancario.

Anche il mondo delle imprese ebbe ripercussioni?

Per quanto riguarda le società, il meccanismo viene definito complesso. Le aziende furono ripartite in tre gruppi: “aziende interessanti per la difesa della nazione”, quelle con almeno 100 dipendenti, e tutte le altre. Dagli elenchi pubblicati nella Gazzetta ufficiale soltanto una era tra le prime, 19 tra le seconde e 3100 quelle minori, prevalentemente a Roma. C’erano poi limitazioni della proprietà che vennero stabilite nel Regio decreto-legge del 9 febbraio 1939 n. 126. Vediamo quindi che, oltre alla sfera dei diritti civili, viene intaccata anche quella patrimoniale. C’era, inoltre, un limite alla proprietà privata dei cittadini italiani di razza ebraica e tutto ciò che superava questo limite confluiva nell’Ente di liquidazione e gestione immobiliare.

Quanto tempo ci è voluto per eliminare queste leggi?

Questa situazione durò fino a tutto il ’44, Soltanto da quel momento in poi furono approvate 22 leggi per ripristinare i diritti civili e politici degli ebrei. Non ci fu un processo immediato: l’abrogazione di tutta la normativa antiebraica arrivò fino agli anni Novanta. Si erano innestati molti contenziosi nel frattempo; immobili requisiti agli ebrei e dati ad altri, venivano poi chiesti indietro dai legittimi proprietari, con conseguenti battaglie legali. Questo è ciò che accadde in Italia, ma non bisogna dimenticare che la Libia in quel periodo era colonia italiana.

Come si agì in Libia? 

Nel momento in cui vennero emanate queste leggi, in Libia governava Balbo, ma non c’era stato nessun concerto col Ministero dell’Africa italiana, quindi si pose un serio problema rispetto alla loro applicabilità in Libia, dove risiedevano cittadini metropolitani, cittadini libici, cittadini libici che avevano anche cittadinanza inglese o francese. Il problema emerse proprio perché la legge non poteva andare ad intaccare gli accordi per la tutela dei cittadini inglesi o francesi o dei cittadini libici diversi dai cittadini metropolitani. Questi ultimi erano equiparati in tutto e per tutto ai cittadini italiani. La legge del ’38 si applicò solo per i diritti civili, ma non andò a intaccare i diritti patrimoniali. Nel settembre del ’42 ci fu bisogno di un’altra legge, che in realtà non fu mai applicata completamente, perché a gennaio del ‘43 arrivarono gli Inglesi e liberarono la Libia. Balbo colse un aspetto importante: andare a togliere forza lavoro qualificata, avrebbe impoverito il territorio, perché la Libia non era sviluppata come l’Italia. Negli ospedali, ad esempio, lavoravano quasi tutte infermiere ebree, come ebree erano le lavoratrici del tabacco, i traduttori nella pubblica amministrazione che conoscevano l’arabo, l’ebraico, l’inglese e il francese. Balbo si rivolse quindi a Mussolini, dicendo che non avrebbe potuto, dall’oggi al domani, espellere quelle persone, per non rischiare il blocco dell’economia del territorio. A quel punto cercò di correre ai ripari, creò albi speciali e dilazionò nel tempo gli effetti della legislazione antiebraica, per dare più tempo alla popolazione indigena di poter andare a sostituire quei posti che sarebbero rimasti vacanti con il licenziamento della parte ebraica della popolazione. Non è un caso che la legislazione antiebraica in Italia cominciò dalle scuole, perché in quel caso la sostituzione avrebbe dato meno problemi e nella scuola si formava il nuovo uomo fascista. Balbo aveva capito che invece in Libia non si poteva fare a meno della componente ebraica, per questo temporeggiò.

Le leggi fasciste ebbero un’influenza anche altrove?

Nel ’39 il Ministero della cultura popolare italiano inviò a tutte le ambasciate sparse per il mondo un questionario da riempire, in cui si doveva descrivere la situazione di tutte le comunità ebraiche, e parlare degli ebrei indigeni e di quelli residenti sul territorio. Sulla base di questo questionario emerse un documento da Budapest del 27 maggio 1939, dove si chiedeva l’allontanamento di una donna ebrea, la signora Giusti, perché lavorava ancora come rappresentante del monopolio dei tabacchi. Venne disposto il suo immediato licenziamento; fu una vera e propria persecuzione. Un episodio non isolato, che ci fa capire la gravità e l’assurdità di quella situazione.


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