Magari smart, ma poco working

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Lo scorso giovedì 17 settembre, presso la sede della federazione della stampa a Roma, si è tenuto un seminario promosso dalla fondazione Murialdi sulle conseguenze del cosiddetto smart working sul lavoro giornalistico.

Il confronto era motivato, tra l’altro, dall’urgenza di evitare facili luoghi comuni, nonché l’eccesso di ottimismo, su di una pratica che il periodo del lockdown ha accentuato, moltiplicando  casistiche in precedenza assai più limitate. Recenti ricerche hanno sottolineato che il risparmio annuale per le aziende è di almeno 10.000 euro pro capite.

Il presidente della fondazione, Vittorio Roidi, non per caso ha posto il problema della peculiarità del lavoro giornalistico. Tale branca specialistica del lavoro intellettuale ha anticipato le tendenze. Tuttavia, un conto è scrivere un pezzo sul portatile (nei tempi eroici sulla lettera 22) e inviarlo alla redazione. Assai diverso è l’essere costretti all’atomizzazione forzosa, deprivando la produzione informativa del confronto collettivo. Il lavoro giornalistico è contiguo forse, ma distante, dalla mera creativitàindividuale della scrittura.

E’ vero che, secondo i dati (ancora in itinere) rappresentati dalla presidente della commissione per le pari opportunità Mimma Caligaris, una buona parte delle interviste si dichiara favorevole a proseguire con lo smart working, ma il rischio evidenziato è di andare indietro rispetto alle tutele contrattuali. Preoccupazione sacrosanta, sentito lo spavaldo intervento da remoto del direttore de la Repubblica Maurizio Molinari, secondo cui grazie a tale tecnica si possono meglio conoscere e valorizzare (ma vale anche il contrario, allora) redattrici e redattori. L’occhio vigile del più o meno grande fratello? Gli hanno risposto numerosi interventi, piuttosto preoccupati per gli effetti di una razionalizzazione non governata.

Che non sia una scusa, quindi, per ledere definitivamente l’impalcatura dei diritti già messa a dura prova dal precariato dilagante; dalla illecita proliferazione dei co.co.co, fino ai licenziamenti puri e semplici.

Ne hanno discusso la presidente dell’istituto previdenziale Marina Macelloni (con un grido di allarme serio anche sui palazzi dell’editoria, a partire dallo storico edificio de Il Messaggero che pare in vendita) e Daniele Cerrato che guida la cassa di assistenza integrativa Casagit,attento a ricordare come in una rubrica televisiva, ad esempio, la distanza è un problema.

Certamente, come ha ricordato il sociologo Morcellini, le rivoluzioni si capiscono dopo. Per prepararsi serve una formazione adeguata, rivolta soprattutto alla componente dell’emisfero meno acculturata, ha aggiunto.E ha annunciato la costituzione, in accordo con il sindacato, di un’alta scuola di aggiornamento professionale presso l’università la Sapienza.

Marino Bonaiuto, docente di psicologia, ha ribadito con accurate argomentazioni quanto sia rischioso l’isolamento dal contesto redazionale, mentre la fisicità non è meno importante nell’era digitale. Con gli enormi problemi normativi causati dalla legge n.81 del 2017 e parzialmente corretti da un nuovo testo presentato alla camera lo scorso fine maggio sul lavoro a distanza. L’iter, però, è al momento molto indietro. Si è intrattenuto al riguardo Massimo Pallini, giuslavorista presso la Statale di Milano.

Nelle conclusioni il segretario della federazione, Raffaele Lorusso, ha toltoil velo di ipocrisia: lo smart working oggi non esiste, è spesso la copertura di comodo di forme di diminuzione delle prerogative sindacali. Trasformazione dei contratti, incremento artificiale della categoria dei collaboratori salvo poi decimarli. Insomma, gli editori poco illuminati se ne approfittano per tagliare oneri e spese.

Qualcosa si muove, però. L’Unione europea ha in cantiere una direttiva sul lavoro agile per il prossimo anno, le camere danno segni di vita e la ministra del lavoro Catalfo ha convocato le parti sociali.

Bene ha fatto, dunque, la fondazione diretta da Vittorio Roidi e Giancarlo Tartaglia a promuovere sul suo sito un largo dibattito e a convocare un seminario fuori dal coro.


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