Un vaccino contro la globalizzazione

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Vent’anni fa usciva un libro diventato improvvisamente popolare in Italia. Era quel “No Logo” di Naomi Klein che faceva a pezzi la globalizzazione. Un termine, intanto, entrato nel nostro linguaggio comune a pieno titolo. Ricordiamo di cosa si tratta: è il meccanismo che cancellando le barriere doganali, consentiva e consente alle grandi aziende occidentali di spostare le produzioni in luoghi lontanissimi per sfruttare manodopera a basso costo, senza diritti (in primis sindacali) e senza voce. Un meccanismo che ha consentito di tenere i prezzi alti (anzi di aumentarli) a fronte di un feroce abbassamento dei costi di produzione. Per capirci, venticinque anni fa avreste mai pagato 400mila lire per un paio di scarpe fatte in una fabbrica delle Marche? Da questa differenza sono nati non solo enormi profitti ma anche dei “margini” per poter investire sul marketing e sul design, attività volte a far crescere il bisogno di comprare oggetti che già abbiamo o di cui potremmo far a meno.

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All’epoca di “No Logo” opporsi alla globalizzazione era di sinistra perchè significava difendere posti di lavoro italiani e diritti dei lavoratori locali ma anche gli sfruttati dall’altra parte del mondo (da Seattle a Genova, il movimento “no global” conquisto la scena mediatica ma il tema era anche proprio della sinistra “istituzionale”). Poi i progressisti hanno perso interesse nell’argomento, impegnati com’erano, a farsi accettare dal ceto imprenditoriale cioè dagli stessi soggetti che “delocalizzavano” (tradotto: chiudevano, mettevano operai in cassa integrazione a spese della collettività, prepensionavano, impoverivano territori) verso il Far East prima e verso la “nuova” Europa, poi.
Oggi la lotta alla globalizzazione è diventata una battaglia di destra (anche detta “sovranismo”), il caso Trump dimostra però come sia uno “schermo” propagandistico per lo più utile a creare un “nemico”, ormai necessario partner di ogni campagna elettorale degna di questo nome.
Trump reclama il ritorno posti di lavoro in patria ma poi lo stesso presidente plaude ai “rally” della borsa dove i numerini che scorrono su lavagne digitali sono legati proprio a questo sistema globale.
Parlando di sovranismo italiano, invece, basta ricordare gli applausi dei suoi esponenti allo scomparso Marchionne, cioè al manager che – meritoriamente per gli azionisti – tra le altre cose aveva portato la sede della società e quindi il prelievo fiscale ben lontano dai nostri “sacri” confini. Un film che, pur con qualche eccezione, si è ripetuto di fronte alla recente notizia del prestito “made in Italy” (non in Olanda o in Regno Unito) per la multinazionale FCA.

“La specializzazione produttiva dei singoli Paesi è una risorsa per l’economia globale”. Non posso dimenticarla questa frase scandita da un grande imprenditore del tessile italiano in tv qualche anno fa. “Specializzazione” fa rima con globalizzazione e significa che un Paese si ritrova a produrre, o quasi, tutto il tessile del mondo oppure copre il grosso della capacità produttiva in metallurgia. In termini di ricavi e profitti funziona per via delle efficienze che nascono nei “distretti produttivi” e dalle “economie di scale”. Al resto – cioè alla consegna -ci pensa la logistica internazionale che sposta ormai qualunque cosa in tempi certi da un punto A ad un punto B del globo.

Funziona, quindi, la globalizzazione soprattutto per le imprese e le mega-imprese, molto meno per i “Paesi” (i cui bilanci sono ormai molto spesso ben meno ricchi di quelli delle multinazionali) per le classi lavoratrici e per la classe media che, nel frattempo, ci siamo giocati.

Funziona fino al momento in cui un virus che arriva da qualche grotta piena di pipistrelli, passando per un mercato affollato, non fa saltare tutto. Quando scoppia l’epidemia in Cina, chiudono gli stabilimenti cinesi e quindi chiudono i fornitori globali di un certo prodotto, cioè i fornitori unici. Volendo guardare solo alle forniture di mascherine, ci si rende subito conto di come il mondo non avesse un “piano B”. E dopo trent’anni in cui hai rinunciato al manifatturiero, non riapri stabilimenti dalla sera alla mattina. Sei senza vie di fuga. Non eri pronto alla crisi anche per colpa della globalizzazione. Ed è qui che crolla la “specializzazione” produttiva per Paesi quella servita alla Cina a portare fuori dalla povertà, centinaia di milioni di cinesi ma che al mondo ha fatto meno bene.

Presi a parlare di presunti complotti (gli spettri che servono alla campagna elettorale di Trump), ad inseguire studi scientifici a cui chiediamo risposte immediate quando serve tempo, a ragionare sulle distanze al bancone nel bar o a imporre ai nostri figli la dittatura dello schermo e delle lezioni virtuali (tutti temi importanti per carità), stiamo dimenticando il punto politico centrale della pandemia di coronavirus: cosa ne faremo della globalizzazione? Ce la terremo così com’è? Lasceremo tutto com’era prima? Fischietteremo facendo finta di nulla?
Sarebbe il caso di parlarne e di ricordarcelo. Se solo esistesse ancora una politica in Italia e nel mondo. Poi ognuno proporrà la sua via d’uscita e non è detto (anzi è sicuro e logico) che ci divideremo su quello ma almeno staremo nel mezzo di una discussione non di un’illusione che tutto vada bene.


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