Ucciso 40 anni fa Walter Tobagi. Intervista alla figlia Benedetta: “era stato divorato dalla passione per il giornalismo fin da ragazzo”

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La prima volta che incontrai la storia di Walter Tobagi avevo quindici anni, andavo al liceo e, per fortuna, all’epoca arrivavano ancora i giornali nelle scuole. L’articolo che mi indusse ad approfondire la sua vicenda era firmato da Enzo Biagi e si incentrava sulla “dignità di chi vuole soltanto capire”. Era il ritratto di un uomo perbene, di un cronista scrupoloso e attento, di uno scavatore di fatti, di storie e di vicende umane, mai alla ricerca di scoop e sempre di dettagli in grado di spiegare le evoluzioni di una società già allora in tumulto. A pensarci bene, la Brigata XXVIII marzo lo assassinò soprattutto per questo.

Erano anni difficili, strazianti, la coda del decennio ricordato come Anni di Piombo e il preludio della stagione dell’indistinto, del riflusso, della depoliticizzazione di una società che, forse, in precedenza era stata afflitta da troppo ideologismo ma che dopo si è persa nell’abisso del nulla. Quella di Walter Tobagi, in fondo, è la storia di un’assenza che ci perseguita da quarant’anni. In questo colloquio con la figlia Benedetta cerchiamo di ricordare e, per l’appunto, di capire.

Chi era Walter Tobagi?

Era un giornalista, uno storico e un sindacalista. Era stato divorato dalla passione per il giornalismo fin da ragazzo e ha scritto un numero impressionante di saggi, specie se si considera che è stato assassinato a soli trentatre anni. Aveva una formazione storica e questo ha contribuito a dare una profondità, un respiro speciale ai suoi articoli. Per quanto concerne il sindacalista, lui nasceva come studioso del sindacato, si era laureato con una tesi sulla rinascita del sindacato nel dopoguerra e il suo ultimo libro, uscito postumo, si intitolava “Che cosa contano i sindacati”, un bilancio del ruolo e del peso delle organizzazioni dei lavoratori negli anni Settanta. Nel prologo usa il “noi”: “Eravamo giovani nel ’68-’69. Per noi il sindacato era l’angelo vendicatore, era la speranza di una società più giusta” e fa riferimento alla tradizione, all’esempio che aveva ricevuto in famiglia del riformismo e dell’umile passo dopo passo. Il sindacato, dunque, era per lui una grande passione: non a caso, fece una cosa che pochissimi giornalisti di rango facevano e fanno tuttora, impegnandosi attivamente nel sindacato, prima nei comitati di redazione in via Solferino e poi diventando, nel ’78, presidente dell’associazione lombarda dei giornalisti. Lui usa parole molto belle per descrivere questo suo impegno: sostiene di essere stato tirato per la giacca e di affrontarlo allo scopo di dare una mano ai colleghi meno noti e tutelati. Fu una scelta di grande coraggio, specie in quegli anni in cui il clima non era più quello del dopoguerra, la stagione leggendaria del giornalismo italiano, ma quello tragico che Giampaolo Pansa, in “Comprati e venduti” descrive come una forma di “normalizzazione attraverso il deficit”.

Mio padre agiva con la concretezza di chi sa che i giornali sono anche strumenti di potere e che dentro i giornali si giocano partite di potere importanti, figuriamoci al Corriere della Sera, con la sua centralità di allora nel sistema mediatico.

Erano gli anni della P2 al Corriere, con il coinvolgimento dell’allora direttore Di Bella e il burrascoso addio di Enzo Biagi che passò a Repubblica in opposizione al disegno e alle mire di potere del “Venerabile” Gelli.

Esatto, ma ricordiamo che il cavallo di Troia per questo grumo di potere erano stati i debiti perché Rizzoli si era indebitato fino al collo. La scelta di mio padre di fare sindacato in quel momento fu una forma di reazione. I suoi scritti sindacali, meno noti ma molto belli, sono volti a tutelare l’autonomia dei giornalisti nei momenti più drammatici. La sua vita è stata intensa: l’ho capito leggendo i suoi scritti, riflettendo sulla bellezza e la pianezza della sua esistenza.

Si è parlato molto, in questi giorni, dello “stile Tobagi”, ossia della sua attenzione ai dettagli, compresi i più minuti e, apparentemente, insignificanti: una virtù rara, soprattutto per le grandi firme.

Mio padre univa una grossa cultura allo spirito del cronista che trova la storia. Il suo giornalismo era cronaca, racconto e diagnosi: un occhio di bue sulle problematiche del presente che non vengono evidenziate. Era uno dei lasciti migliori del grande giornalismo degli anni Sessanta di cui lui si è nutrito. Basti pensare a un suo libro del ’79, un libro-intervista con Giorgio Bocca, le cui inchieste sulle città, ai tempi del Giorno, sono passate alla storia. Il giornalismo di racconto, di analisi, di spaccato antropologico ed economico insieme: una scuola d’eccellenza che ha formato Tobagi, che poi l’ha fatta propria e declinata in maniera molto personale, in base alla sua sensibilità che si fondava su una formazione intellettuale e accademica molto forte.

Mio padre riusciva a raccontare non solo la donna che fa i panettoni, che pure ha un suo ruolo sociale, ma anche la prospettiva storica del proprio tempo.

L’aspetto significativo, tornando a Bocca, è che lo aveva già intervistato nel ’65, quando era un liceale e scriveva sulla Zanzara del Parini. Andò a intervistarlo, tampinandolo, per capire cosa ne sapessero i ragazzi della Liberazione a vent’anni di distanza e lo ritrovò, quattordici anni dopo, per un incontro assai significativo.

Nel ’78, poi, venne convocato dal Consolato statunitense a Milano: il console lo invita e viene descritto come “the young cerebral Corriere della Sera correspondent, non communist” e si fecero fare tutta una diagnosi in merito alle fratture all’interno del Partito Comunista. Mio padre aveva da poco intervistato Luigi Longo, ex segretario del PCI, il quale aveva lapidato la prospettiva berlingueriana dell’eurocomunismo, e gli americani volevano sapere tutto fin nei minimi dettagli, a cominciare dagli equilibri politici e sindacali del nostro Paese.

Parliamo, appunto, del Tobagi giovane, quando da liceale scriveva su quel gioiello che era La Zanzara, passato alla storia per un’inchiesta che destò scandalo sul rapporto fra gli adolescenti e il sesso. È lì che impara a essere leggero senza mai risultare fatuo, sanamente irriverente…

Una piccola precisazione: lui, da adolescente, era non dico moralista ma un po’ severo…

… si arrabbia anche con i compagni perché non leggevano i giornali.

Già! E fu un altro grande a portarlo alla Zanzara: Vittorio Zucconi, purtroppo scomparso anche lui. In quella redazione c’era, fra gli altri, anche Salvatore Veca: erano anni in cui in determinati licei si formava davvero la futura classe dirigente del Paese.

Tornando a papà, lui nasce come giornalista sportivo. Era milanista e, nel marzo del ’62, firmò un’intervista a Giovanni Trapattoni, all’epoca giovanissimo mediano del Milan. Trapattoni gli rilascia quest’intervista e fu un colpaccio. Tuttavia, l’aspetto più incredibile è che il Trap, in occasione del suo settantesimo compleanno, si ricordò di aver rilasciato la sua prima intervista a mio papà: un aspetto molto tenero. Papà scherzava con mamma, quando erano ancora solo fidanzati, dicendole che sarebbe stato bello un giorno ricordare che aveva cominciato la sua carriera parlando di calcio e l’aveva proseguita parlando di sci, perché poi collaborò con MilanInter e col mensile Sciare, seguendo ad esempio le Olimpiadi invernali di Grenoble nel ’68, a ventun anni. Lui si manteneva agli studi col giornalismo sportivo che, peraltro, specie a quei tempi, era una grandissima palestra di scrittura.

Basti pensare a figure come Gianni Mura e Beppe Viola, suoi coetanei…

Esattamente.

Nel ’79 è costretto a occuparsi di una tragedia: l’omicidio, ad opera dei terroristi di Prima Linea, del giudice Emilio Alessandrini. Alessandrini aveva detto: “Stanno colpendo i riformisti, coloro che vogliono provare a cambiare in meglio questo Paese”. In entrambi i casi, una profezia che si autoavvera…

Le perdite di queste persone così capaci, intelligenti e piene di umanità sono state uno strazio. Una volta Carole Tarantelli, la vedova di Ezio Tarantelli, ha detto che se si potesse fare un conto, come si fa nei bilanci delle società, del patrimonio che i terroristi di sinistra hanno tolto al nostro Paese, sarebbe una cosa da togliere il respiro.

Alessandrini, al pari di Galli, ucciso dopo di lui, stava cercando di capire e inquadrare il fenomeno. Mio papà non ne parliamo: lui veniva da anni di studio della sinistra extraparlamentare e di coloro che, radicalizzandosi, hanno poi fornito manodopera alle organizzazioni terroristiche.

Dalla fine degli anni Sessanta, l’estremismo di sinistra aveva capito che per far crollare il sistema era necessario tirare giù i pilastri: da qui l’attacco al riformismo e al cambiamento moderato, vero nemico dei presunti rivoluzionari, soprattutto dal ’77 all’80, gli anni del terrorismo diffuso.

L’articolo che scrive su Alessandrini è un ritratto bellissimo della persona ma dietro c’era una sofferenza umana enorme: una magistrata, per un libro che sto scrivendo, mi ha raccontato che papà era andato al Palazzo di Giustizia non solo per raccogliere informazioni e commenti ma per partecipare al dolore della camera ardente, aveva abbracciato questa magistrata, un abbraccio muto, e avevano pianto. È ciò che riescono a fare quegli articoli che non solo riescono a lasciare una riflessione che resta ma che traboccano di umanità. Papà nei suoi diari lo scrive: era il giornalista più simile ad Alessandrini e avevano trovato il suo nome nei covi, il momento era quello. Sono quei passaggi che fanno capire cosa sia stato il terrorismo di sinistra. A me è capitato parecchie volte di sentire in giro che le BR non avevano poi tutti i torti: un discorso qualunquista che sopravvive in forme inaspettate e si alimenta a causa del malessere sociale. Basta avvicinarsi a storie come quella di mio papà per comprendere l’assurdità di quelle posizioni, la cappa che quella visione ha fatto calare, l’emergenza che ha rappresentato e il drenaggio di risorse che ci ha sostanzialmente annientato.

Non solo: mentre tutti stavano dietro alle Brigate Rosse, Cosa Nostra, grazie al narcotraffico, compiva il salto di qualità.

Cos’è per te l’odio e il concetto di nemico?

È la volontà di distruggere l’altro perché sei incapace di coglierne l’umanità. La logica del nemico ti induce a percepire il prossimo come una minaccia.

Io ho un’esperienza biografica particolare perché quando sei piccola, come ero piccola io quando venne assassinato mio padre, la reazione è diversa rispetto a quella di un adolescente o di un adulto. Avevo intorno a me una sensazione di vuoto atroce che risucchiava tutto. Le mie ricerche sul terrorismo nascono da lì e non mi stanco mai di leggere, di approfondire, di occuparmi di criminologia per arrivare alle radici del male. Quando si dà libero sfogo all’odio, bisogna rendersi conto che quello che sono in grado di fare gli uomini in termini di ferocia è del tutto estraneo al mondo animale. Anche per questo continuo a interrogarmi.

Tu hai scritto altri due libri, dedicati alle stragi di piazza Fontana e piazza della Loggia. Qual è il filo conduttore che lega le vicende di sangue di quegli anni?

Domanda difficilissima! Ho studiato a lungo il terrorismo nero, le trame eversive, la Strategia della tensione e il contesto di quegli anni perché anche la vicenda di mio padre, se non la si contestualizza, non la si può comprendere fino in fondo. Mi sono occupata delle cosiddette stragi impunite: vicende atroci, il tradimento consumato da parti significative dello Stato nei confronti dei cittadini, solo in parte compensato dal coraggio di quanti, invece, si sono battuti per portare alla luce la verità dei fatti.

La profondità storica ci aiuta a guardare alla vita come è scritto nel “De rerum natura”: “è un grande traguardo riuscire a guardare la tempesta stando in piedi sulla scogliera, senza lasciarsi travolgere dalle onde”. L’Italia all’epoca era una repubblica giovanissima, con alle spalle vent’anni di fascismo e immersa nel contesto della Guerra fredda, quindi soggetta a pressioni internazionali inimmaginabili.

In quegli anni, come spiega anche lo storico Miguel Gotor, c’era, per l’appunto, una strategia volta a destabilizzare per stabilizzare in senso conservatore la società.

Personalmente, mi sono legata molto alle persone, alle loro storie, alle vicende che si congiungono l’una all’altra formando una sorta di fiume carsico, pervase dalla domanda su come ci poniamo noi di fronte al problema del male. Quello che mi incanta, oltre alla volontà di capire quello che è successo, è come le persone sono riuscite a reagire a questo male: capirlo ci può dare tanta forza, ci può aiutare ad attraversare questa società piena di ingiustizie, domandandoci: cosa facciamo noi di fronte a qualcosa di terribile? Cosa cerchiamo di fare? E reagendo nel mondo che abbiamo intorno.

Concludo con una domanda che forse avrebbe posto lui: tu giri molto per le scuole. Cosa ne sanno i ragazzi di tuo padre e delle vicende di quegli anni? Cosa ti colpisce maggiormente quando parli con loro?

La premessa è che io realizzo dei moduli, dei laboratori didattici, supportando gli insegnanti stessi per aiutare la comprensione dei ragazzi. Il punto è: cosa insegniamo loro?

Cosa li appassiona?

Sarò fortunata, ma vedo nei ragazzi una curiosità enorme. Il periodo storico del terrorismo e degli anni Settanta li interessa moltissimo. Certo, non li si può travolgere con dati e nozioni ma se si spiega loro ciò che è successo, rivolgono mille domande. Ma come si fa a vivere in uno Stato che ha fatto cose di questo genere? Come possiamo informarci noi su quel periodo? Sono questi gli interrogativi che si pongono e mi pongono. Vedo un materiale umano molto buono, e anche in questo periodo di pandemia devo dire che l’hanno presa bene, si sono interrogati sul dopo, hanno riflettuto e questo mi dà speranza. La logica del nemico e dell’odio secondo i criteri degli anni Settanta per loro è impensabile: semmai, in questa stagione cosiddetta “post-ideologica”, si pongono quesiti sull’odio in rete e contro gli stranieri.

Vorrei concludere dicendo un’ultima cosa sulla strage di Brescia…

…prego!

La strage di piazza della Loggia ha avuto finalmente dei colpevoli. Voglio ricordare Vito D’Ambrosio, un bravissimo procuratore di Cassazione adesso in pensione, che si è battuto per accertare la verità dei fatti. Ho realizzato il sogno di poter mandare in libreria una nuova edizione di “Una stella incoronata” di buio, togliendo dal sottotitolo l’aggettivo “impunita”, e questo ha accresciuto enormemente la mia fiducia nella possibilità di far luce su quanto è avvenuto in quegli anni. Quella di Brescia non è più una strage impunita e bisogna reinnamorarsi del miracolo di quello che si riesce a fare nonostante tutto.


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