Vi presento Miska: “Curtiz”, il biopic sul regista di “Casablanca”

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“Curtiz”, di Tamás Yvan Topolánszky, può inscriversi per intero nell’ipnotica piano-sequenza circolare della cena dell’incipit, nella quale si dispiegano non solo tutte le capacità del regista svizzero-ungherese che inquadra, sceglie e sottolinea con estrema eleganza tutti quegli gli elementi, relativi al protagonista, che ne rappresentano la cifra esistenziale, ma anche i fuochi d’artificio di una sceneggiatura brillante, tagliente ed essenziale che strizza spesso l’occhio al noir e alle commedie del cinema americano degli anni ‘40. Ma “Curtiz” non è il singolare biopic in un bellissimo bianco nero su Manó Kertész, (Miska per tutti): è soprattutto una sorta di backstage di “Casablanca” la pellicola che rese appunto Michael Curtiz celeberrimo e che gli valse l’unico Oscar della sua carriera.

Cinematograficamente il film non è dunque solo una raffinatissima operazione di nostalgia per un “cult” tra più amati della storia, ma accosta in parallelo la vicenda del Rick Blaine di “Casablanca” a quella personale del regista stesso. Da un lato un individuo votato esclusivamente alla sua personale salvezza, un avventuriero qualunquista, che invece si dimostra un “eroe” e che lotta segretamente per mettere in salvo i profughi ebrei e i clandestini della resistenza antinazista. Dall’altro “un uomo senza patria che non deve niente a nessuno” – l’interpretazione di Ferenc Lengyel che somiglia davvero a Curtiz è davvero notevole – donnaiolo e fedifrago impenitente con più di qualche pregiudizio: “per te – gli rimprovera Conrad Veidt (il colonnello Strasser di “Casablanca”) – tutti i tedeschi sono nazisti, vero?” Il dualismo Rick-Curtiz si ripropone anche in quello Kertész-Curtiz: l’uno, emigrato ebreo-ungherese giunto in America nel 1926, che si lascia alle spalle l’esperienza della Grande guerra, in cui ha combattuto, una quarantina di film e due figli illegittimi; l’altro, il self-made man, diventato regista di successo (fu lui a lanciare Errol Flynn nel firmamento divistico), cinico e crudele, che accoglie a stento la figlia Kitty (Evelin Dobos) dopo diciannove anni di silenzio e che finalmente è costretto, quindici anni e sessantotto film dopo, a fare i conti con se stesso e la Storia proprio sullo sfondo delle riprese di “Casablanca”, mentre è in procinto di “contrabbandare” il resto della sua famiglia fuori dall’Ungheria. Ed è qui che la pellicola si fa davvero interessante investendo le questioni legate alla propaganda in favore dell’intervento americano nella Seconda guerra mondiale.

Non a caso le prime scene di “Curtiz” sono quelle di un cinegiornale sull’attacco a Pearl Harbour. Eppure gli americani sembravano restii a farsi coinvolgere in un conflitto così lontano. Perciò il Dipartimento della Guerra propose una serie di film di guerra, assumendo registi del calibro di Ford e Capra sotto l’ombra della Warner. “Curtiz” affronta la questione con sufficiente misura, riproponendo il dibattito all’interno delle riprese di “Casablanca” tra i componenti federali della commissione federale, nella persona di Johnson (impersonato da Declan Hannigan), del regista e degli sceneggiatori, i fratelli Epstein: il film insomma doveva essere l’incarnazione del carattere della nazione”. Da questa prospettiva “Curtiz” ci offre in controluce tutte le difficoltà e i vuoti di “Casablanca” (Topolánszky non lascia mai apparire i protagonisti) mostrandone tutte le contraddizioni: su quel set si lavorava sulla sceneggiatura alla giornata e non era stato ancora pensato il finale. Che arriva per una illuminazione di Curtiz, quasi una identificazione col suo personaggio. In fondo “Curtiz” è il ritratto di una solitudine disperata e senza scampo (come quella di Rick): nella realtà il regista non riuscì mai a risolvere il rapporto conflittuale con la figlia e quasi tutta la sua famiglia, che aveva tentato di far giungere negli Stati Uniti, fu deportata ad Auschwitz: solo la sorella riuscì a salvarsi. Ad aggiungere valore a questa opera prima (che ha vinto il premio come Miglior film al Montréal World Film Festival nel 2018) la splendida fotografia di Zoltán Dévényi e l’altrettanto seducente colonna sonora dalle sfumature jazz firmata da Subicz Gábor.

Raccontando il film in un film “Curtiz” funziona quasi come una sorta di “Effetto notte” ovviamente più cool e austero, che indugia a volte ad un sussiegoso manierismo, ad una dimensione virtuosistica del linguaggio cinematografico (tipico della post-modernità), tra contrasti forti, luci e ombre, alcool e sigarette, con l’insistenza sui dettagli e i particolari, i quali, seppur cliché, funzionano. D’altra parte lo stesso Eco a proposito di “Casablanca” aveva scritto che “due cliché fanno ridere, cento commuovono.” E’ anche il caso di “Curtiz”, mai dimentico della lezione di “Casablanca”, a maggior ragione quando anche il regista che ha appena finito di visionare il suo capolavoro, pronuncia, anche lui, il fatidico “play it again…”


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