Nuccio Iovene. Coronavirus, l’unica fretta possibile è l’avvio di una discussione di fondo sul dopo che vogliamo costruire

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Di Nuccio Iovine

Sono tre mesi ormai che il mondo convive con il covid-19, lasciandoci prima increduli e poi sempre più sgomenti. In questi tre mesi il virus ha lasciato la remota città di Wuhan, provincia di Hubei in Cina, da dove lo seguivamo distrattamente, come fosse una fiction televisiva, per giungere fin dentro le nostre case e fare il giro del mondo. Oggi più di un milione e duecentomila persone risultano ufficialmente contagiate in ogni parte del pianeta e, purtroppo, i numeri sono destinati ancora ad aumentare, mentre i deceduti sono già oltre 65.000. Anche gli esponenti più cinici e negazionisti delle destre al governo, da Trump a Boris Johnson, da Bolsonaro a Erdogan, dopo aver ostentato boria e impossibile sicurezza hanno dovuto abdicare di fronte alla rapidità della diffusione del contagio ed alla impreparazione con cui si è stati colti e rischiano di essere, essi stessi, travolti dalle loro stesse sottovalutazioni e dalle conseguenze sanitarie, sociali ed economiche che la diffusione del virus sta determinando.

Un’esperienza inedita in questa forma ed in queste dimensioni, ma non imprevedibile (se solo si fosse ascoltato per tempo l’allarme della scienza sulle possibilità di diffusione di pandemie letali), che ha reso evidenti i limiti del modello di sviluppo e di società prevalso negli ultimi trent’anni. E così tanti nodi stanno venendo al pettine: dai tagli alla sanità qui da noi all’assenza di tutele sanitarie pubbliche in gran parte del pianeta, dalla globalizzazione senza freni e senza regole che oltre ad alimentare disuguaglianze e squilibri sociali sempre più odiosi ha consentito al virus di diffondersi con una velocità impressionante, ai cambiamenti climatici il cui impatto oggi ci appare ancora più drammatico e inesorabile, dalle politiche di austerità (tranne che per i ricchi) imposte per decenni al neoliberismo sfrenato con il conseguente smantellamento dei sistemi di welfare, dalle scelte istituzionali che invece di provare a rispondere alle sfide globali hanno alimentato conflitti locali e confusioni di ruolo all’insorgenza di sovranismi e populismi sempre più pericolosi. Tutto quello che fino a tre mesi fa era considerato un dogma intoccabile è stato spazzato via dall’emergenza di questi giorni: l’obbligo del pareggio di bilancio introdotto in Costituzione senza neanche discutere da un Parlamento in cui per la prima volta la sinistra era assente, il rigore delle politiche europee che solo qualche anno fa ha costretto la Grecia a sacrifici enormi nel disinteresse anche di chi avrebbe dovuto manifestargli maggiore vicinanza per ragioni storiche e politiche, la riduzione al minimo del ruolo dello Stato e di un suo possibile intervento nell’economia. In una parola quel “pensiero unico” che aveva reso per lungo tempo indistinguibili le destre e le sinistre al governo, più attente entrambe alle sfumature che alla sostanza dei mutamenti che venivano avanti.

Non a caso in questi giorni è stato ripreso un felice slogan utilizzato durante le proteste in Cile dello scorso autunno e quanto mai efficace anche nella situazione attuale: “Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”. Ecco perché la fretta (strumentale) di tutti quelli che si affannano a voler riaprire tutto (nel nostro Paese ad esempio un Matteo le Chiese e l’altro le fabbriche) prima che si siano ricreate le condizioni minime di sicurezza collettiva sarebbe patetico se non fosse irresponsabile. E pone un problema enorme sul dopo. Certo che ci si augura che l’emergenza sanitaria finisca il prima possibile, e che l’attuale stato di costrizione possa essere superato, ma bisogna dirsi la verità: un vaccino prima di un anno, un anno e mezzo sarà difficile averlo a disposizione, una cura che renda la malattia meno devastante e possibilmente sotto controllo ancora non esiste e saranno necessari anche in questo caso diversi mesi. Quindi occorrerà per un certo periodo convivere col virus, e bisognerà farlo utilizzando tutte le precauzioni necessarie, rafforzando il sistema sanitario, accompagnando una riconversione produttiva ed una innovazione lavorativa che siano in grado di estendere diritti e tutele ed evitando che l’emergenza economica si sommi a quella sanitaria colpendo come sempre i più esposti. Questa è la discussione vera in corso in Europa, e lo sarà anche nel resto del mondo. Andranno ripensate a fondo le priorità di intervento economico e sociale, le modalità con cui eravamo abituati a fruire di eventi o socializzare, e anche consumare. Se c’è una cosa su cui bisognerebbe cominciare ad avere fretta, non è certo l’archiviare questi tre mesi che il mondo ha alle spalle facendo finta che non sia successo nulla, ma l’avvio di una discussione di fondo sul dopo che vogliamo costruire.

Da jobsnews


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