La scomparsa di Lucia Bose’: identificazione di una donna-attrice

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Probabilmente sarà annoverata quale prima vittima  dell’emisfero cinematografico a causa del corona virus: destino ingrato e repentino per la cara Lucia Bosè, esponente della bellezza italiana anni ’50     (suffragata però, e come Silvana Mangano, da un surplus di grazia interiore ed innata intensità espressiva) al pari di Sophia Loren e Gina Lollobrigica.  Ma diversamente “maggiorata” , interiormente.

Nata a Milano nel gennaio del 1931,  Lucia fu (nel 1947) tra le prime Miss Italia dell’aspro dopoguerra italiano, “avviata” ai riconoscimenti su grande schermo dopo essere stata semplice cassiera  in un caffè di Piazza del Duomo,  ma presto invogliata a partecipare (per la sua bellezza eloquente, non  ornamentale o da stereotipo) a quel concorso ‘da fiaba’ che fu all’apice delle “nostre ragazze” scaturite da una prima adolescenza irta di stenti, sogni, illusioni, privazioni.

Leggenda o verità tramandano  che furono  Giorgio De Lullo e Luchino Visconti i suoi  talent scout, segnalandola    a   Michelangelo Antonioni per “Cronaca di un amore” del ’51, il film che la rivelò al pubblico e alla critica, dopo il rilevante e determinante debutto in   “Non c’è pace tra gli ulivi”, ove fu Giuseppe  De Santis ad individuare  nel suo volto delicato,  sensuale, travagliato  il migliore disegno della contadina “offesa e contesa” in amore.

Quel peculiare-  e del tutto spontaneo  – malessere esistenziale  che  sprizzava dal suo insofferente fascino le rese agevole il ruolo (indicativo  di certa borghesia in rialzo dagli anni più bui di guerra e  fascismo) della donna affascinante,  misteriosa,  protagonista del suddetto film di Antonioni , a fianco dell’ immancabile  e sempre flemmatico Massimo Girotti – cui fece seguito, sempre diretta dal regista ferrarese, il  raffinato e parzialmente calligrafico “La signora senza camelie” (doppiata da Andreina Pagnani) in cui la Bosè (sulla falsariga, forse,  di “Viale del tramonto”)  viveva le ansie e le apprensioni  di una stella del cinema in deficit di autostima.

Di mera routine furono, per qualche tempo, i ruoli successivi, spesso a fianco del suo ‘spasimante’ d’epoca Walter Chiari, quali  “E’ l’amor che mi rovina” ed “Era lei che lo voleva”, condite da qualche folata di  realismo sentimentale come il non disprezzabile  “Le ragazze di piazza di Spagna”, diretto dal maestro dei documentari d’arte Luciano Emmer.    Antecedenti di un gran balzo verso il cinema d’autore  (metà anni ’50)  con   Luis Bunuel per “Gli amanti di domani” , Juan A. Bardem per “Morte di un ciclista”, Francesco  Maselli  per  “Gli sbandati”,  Jean Cocteau per  “Testamento di Orfeo” di Cocteau.

Tralasciando i particolari molto stressanti del suo matrimonio con il torero Dominguin (goduria e delazione della stampa gossip d’ogni tempo e paese), che ne sancirono una lunga sosta professionale (e l’auto esilio in Spagna), bisognerà attendere la fine degli anni ’90 per ritrovare Lucia Bosè nuovamente  gratificata da ruoli a lei degni, dal “Satyricon” di  “Fellini a “Sotto il segno dello Scorpione” dei Taviani.         Affrancatasi quindi dallo stereotipo di “moglie e madre” tradita, nella realtà nuda e cruda, indipendente nello spirito e non convenzionale nelle apparizioni (fu la prima signora punk dai capelli blu, autoironica, amichevole, senza sussiego), Lucia tornò sul set in più occasioni per lo più italiane,  tutte di rilievo e  spiccata personalità professionale:  con Liliana  Cavani  in  “L’ospite” (ove è la reduce magmatica da un ospedale psichiatrico), con Giulio Questi in “Arcana” (vedova misterica e  stregonesca), con Mauro Bolognini in “Metello” , con Francesco  Rosi nel corale “Cronaca di una morte annunciata” – partecipando altresì  allo sceneggiato   “La Certosa di Parma” ed all’unico film diretto da Jeanne Moreau, “Lumière”, confessioni dinanzi alla cinepresa di quattro attrici di fama e di classe.  Avendo  ruoli di eccellenza anche  in “Harem suarè” di Ozpetek,  “L’avaro” di Tonino Cervi in  ” e   “Vicerè” di Faenza.

E restava  sinceramente orgogliosa della sua amicizia con Visconti, Picasso ed Hemingway, “veri protagonisti degli anni perduti della cultura internazionale”-  ricordava, rimarcando le sue doti di donna schietta e disincantata, affettuosa e   complessa, in un solo, gradevole ‘enigma’ per chi la conobbe da vicino. O da rarefatta attrice quale seppe essere, in fondo ineffabile ed ancora in cerca di “identificazione” (giusto per citare un titolo del suo caro Michelangelo).


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