Non possiamo permetterci di perdere un altro decennio 

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Fra metà novembre e la notte tra il 26 e il 27 gennaio, dopo l’apertura delle urne in Emilia Romagna, si è definitivamente capito che il decennio da incubo che abbiamo alle spalle è finito. Non lo rimpiangeremo, se non per il fatto che, per la nostra generazione, è coinciso con i vent’anni, ossia con una stagione irripetibile della vita che, nel nostro caso, è stata segnata quasi unicamente da tragedie. Non c’è stata una guerra, ma quasi. Non abbiamo assistito a bombe, morti, fughe disperate nei rifugi, suoni di sirene, rastrellamenti e quant’altro, ma se la parola più pronunciata dagli oppositori di Salvini nel corso della campagna elettorale è stata “Resistenza” un motivo c’è. E il motivo è che il decennio appena trascorso altro non è stato che la coda avvelenata degli anni Ottanta, con il loro carico di rampantismo, leaderismo, mancanza di rispetto per il prossimo, violenza verbale e ogni forma di odio possibile e immaginabile. Odio per gli immigrati, per la politica, per il Parlamento, per il concetto stesso di democrazia rappresentativa, per la “Casta”, per i partiti e per l’idea stessa di stare insieme e vivere in una comunità solidale e accogliente. Odio, ancora odio, nient’altro che odio: questi sono stati gli anni Dieci del Ventunesimo secolo. Anni in cui abbiamo seppellito la cosiddetta Seconda Repubblica, in realtà mai iniziata, e provato a fare i conti con l’eredità del berlusconismo. Anni in cui si sono affaciati sulla scena nuovi leader, ahinoi vecchissimi e privi di contenuti, in una sorta di ubriacatura collettiva che ci ha condotto al punto infimo nel quale ci troviamo oggi. Ebbene, fra novembre e pochi giorni fa, abbiamo assistito a un’inversione di rotta.

Come abbiamo già avuto modo di scrivere, infatti, le Sardine altro non sono che una cesura non solo generazionale ma valoriale rispetto al nulla in cui siamo stati immersi per tre decenni abbondanti. Quanto alla Schlein, sarebbe molto riduttivo affermare che abbia ottenuto la messe di preferenze che le sono arrivate solo perché giovane o perché donna: le ha conquistate passo dopo passo perché ha una biografia che racconta bene la sua storia e costituisce una sorta di programma politico, le ha conquistate perché è una spanna sopra molti altri, le ha conquistate perché non si è mai risparmiata, e sinceramente mi dispiace che una personalità del suo calibro non si sia potuta ricandidare al Parlamento europeo a causa dei mille veti, errori e divisioni che hanno ammorbato la sinistra negli anni maledetti che abbiamo descritto.

Tuttavia, proprio perché la conosco, la stimo e le voglio bene da prima che diventasse “qualcuno”, posso asserire a ragion veduta che il leaderismo fine a se stesso è l’esatto opposto di ciò che vuole e del suo modo di intendere la politica. Non abbiamo bisogno di un altro superuomo e nemmeno di una superdonna, di un altro capo, duce, idolo, di una bandierina da far garrire per qualche tempo e poi avanti il prossimo, in un continuo falò delle vanità di questo o quell’esaltato. Ciò di cui ha urgentemente bisogno la sinistra, al contrario, è una costituente delle idee. Poiché il governo dovrebbe durare ancora un po’, nonostante la crisi dei 5 Stelle sia ormai conclamata e possa avere esiti imprevedibili, la sinistra si deve attrezzare, in tutte le sue componenti, per un grande dibattito nel e con il Paese. Non il solito congresso che dura un paio di mesi, con un’orgia di primarie a corredo e qualche dibattito televisivo all’americana a far da sfondo a un’esibizione muscolare di vuoti che si sovrappongono. No, ciò di cui ha bisogno la sinistra diffusa, che c’è e finalmente sembra aver ripreso coscienza di se stessa, è di prendere il taccuino di cui ha parlato Elly e andare ovunque. Deve mettersi in viaggio, scoprire, esplorare, andare a trovare gli ultimi degli ultimi e avere il coraggio di subire fischi e contestazioni perché di applausi posticci è morta già una volta. Deve andare al Pilastro e farne, per l’appunto, il plastro della propria proposta politica: un quartiere che incarna una certa idea del mondo, dove anche i deboli vengono rispettati e coinvolti, dove nessuno viene lasciato indietro, dove a casa di un ragazzo tunisino ci si entra non per offenderlo e chiedergli se spaccia, non per additarlo al pubblico ludibrio, scatenando una gogna social che ha finito con l’indignare persino i vertici di Facebook, ma magari per pranzare insieme e chiedergli un suggerimento per migliorarne le condizioni di vita nella Nazione in cui ha scelto di vivere.

Occorre un dibattito che vada a Lampedusa da chi salva vite umane: penso al dottor Pietro Bartolo, oggi parlamentare europeo, e ai suoi tanti colleghi meno noti che si prendono cura, giorno e notte, di chi scappa dalla miseria e dalla guerra e viene a cercare da noi un avvenire migliore per sé e per la propria famiglia.
Penso alla Calabria, che ci ha voltato le spalle e dalla quale bisogna ripartire: perché l’Emilia funzionava prima e continuerà a funzionare adesso, ma è la terra di Corrado Alvaro, dalla quale i giovani fuggono perché non c’è futuro, di cui dobbiamo occuparci al meglio se vogliamo riannodare i fili di un Paese spezzato. La Calabria, oltretutto, ci ricorda che, in questo mondo colmo di ingiustizie, non è il colore della pelle a dividere le persone ma il reddito e il ceto sociale: anche noi stiamo tornando a essere un popolo di emigranti, benché partiamo con un biglietto aereo e una valigia che non sarà più di cartone ma ricorda tanto quelle dei nostri padri, nonni e bisnonni che salpavano per “la Merica” a bordo di un piroscafo che non sempre arrivava a destinazione.
Penso alla Sicilia che si batte contro la criminalità organizzata e resiste, ai tanti, troppi circoli del PD che sono finiti in mani improprie, al bisogno di riappropriarsi, ovunque, di luoghi fisici in cui incontrarsi, alle piazze che devono continuare a essere riempite e a una generazione, la mia e quella subito dopo, che nel tempo dell’abisso ha riscoperto, e non credo sia un caso, la gioia dello stare insieme. Perché, in fondo, essere compagni, altro non vuol dire che condividere lo stesso pane ma anche le stesse emozioni, gli stessi sentimenti, le stesse letture, le stesse passioni, prendersi per mano e andare avanti insieme, rendersi conto che il domani può far meno paura se la strada la si percorre in tanti, capire che le diversità aiutano a osservare il mondo con altri occhi e che questa è la più grande ricchezza, in una fase storica ammorbata da troppe solitudini e troppi cantori dell’individualismo sfrenato.

C’è da prendersi cura dell’ambiente, certo, e bisogna anche contrastare il jihadismo contro le donne che è una caratteristica tipica della destra trumpista diffusa in ogni angolo del mondo. Occhio, tuttavia, a non compiere involontariamente il più sessista e discriminatorio dei gesti, ossia valorizzare le donne creando nuove discriminazioni e ingiustizie, in quanto donne e non in quanto persone capaci e competenti. Devo dire che questo concetto è già entrato nella testa delle nuove generazioni e sarà bene che anche le altre lo comprendano alla svelta.
C’è bisogno di tornare nelle fabbriche, nei centri commerciali, nei non luoghi alle porte delle nostre città, megalopoli del consumo che marginalizzano l’essere umano e creano un’alienazione, non solo lavorativa ma anche spirituale, che indurrebbe Marx ed Engels ad aggiornare il Capitale, come del resto ha fatto mirabilmente PIketty qualche anno fa.
Bisogna dire chiaramente al governo Conte che i salari da fame non sono più accettabili e che se davvero uno dei motti che ha fatto la fortuna del Movimento 5 Stelle era che nessuno dovesse restare indietro, beh sarebbe ora di tradurre in norme e azioni concrete questi ottimi propositi.
Quanto alla cittadinanza, il famoso Ius soli, bisogna uscire dalla logica della concessione, perché la cittadinanza italiana non si concede, al massimo si riconosce e bisogna anche scusarsi con tanti nuovi italiani cui finora abbiamo negato diritti essenziali solo per la folle paura di sfidare il sentimento comune e l’arroganza di un salvinismo che comincia a battere in ritirata, sconfitto dai suoi eccessi e dalla riscossa di un tessuto civico che non intende arrendersi alla barbarie.

C’è un’Italia da ricostruire, tanti fili da riannodare, tante solitudini di cui prendersi cura, tanti diritti da porre al centro del dibattito pubblico e una sinistra da rifondare totalmente, ponendola sulle gambe di una nuova generazione di dirigenti e facendo sì che la guidi una classe dirigente diffusa, uomini e donne inseme, senza puntare su un leaderismo esasperato ed esasperante che è senz’altro il lascito peggiore del liberismo sfrenato degli ultimi decenni e del berlurenzismo di casa nostra.
L’unica certezza che ci hanno lasciato gli anni appena trascorsi è che non possiamo permetterci di perdere un altro decennio. Siamo negli anni Venti: nel Novecento condussero il mondo nell’inferno dei regimi totalitari, in questo secolo devono portarci alla piena riconquista della democrazia e dei suoi princìpi. È una missione che può valere una vita. In Italia, in Europa, nel mondo.

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