La voce di migranti e rifugiati per un giornalismo di “contesto”

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È di ieri la notizia dell’ennesimo caso – ancora in fase di accertamento – di razzismo: in un ospedale del nord Italia, una donna nigeriana, disperata per la morte della bimba di appena cinque mesi, viene insultata e denigrata da alcune persone presenti nella struttura per le urla di dolore “da scimmia”, non da essere umano.

Ennesimo caso di discriminazione xenofoba e razzista, emblema del rifiuto a riconoscere gli “immigrati” come parte della realtà sociale. Il direttore dell’Unar Loukarelis, in occasione della presentazione del VII Rapporto della Carta di Roma “Notizie senza approdo”, ha ricordato che il 70% delle segnalazioni di atti discriminatori si riferisce all’origine etnica-razziale.

Era il 1997 e due illustri studiosi, René Gallissot e Annamaria Rivera, nel testo “L’imbroglio etnico in dieci parole chiave” scrivevano dei rischi della semplificazione dell’informazione che tendeva a creare il prototipo dell’immigrato “una presenza passeggera e abusiva, connotata da marginalità e precarietà, per lo più rappresentata come un ambulante miserabile, maschio, africano, privo di istruzione”.

Vent’anni dopo, guardando alla fotografia dei media scattata da “Notizie senza approdo”, si intravedono differenze ma anche continuità con il passato. La prima continuità, nell’informazione di prima serata, sta proprio nella costruzione mediatica del prototipo dell’immigrato: migranti e rifugiati a bordo delle navi, o accolti in centri di accoglienza in Italia o in Europa, che sottolineano la loro fragilità, l’esposizione a ogni evento di natura meteorologica, geopolitica, esistenziale, che, nelle loro condizioni, diventa estremo. È il frame della debolezza, che descrive le persone migranti come inermi e bisognose di aiuto. In molte notizie si ritrova anche un’altra cornice: quella della alterità e della minaccia, che testimonia l’esistenza di luoghi – spesso, interi territori ai margini delle città – in cui lo Stato e ogni parvenza di legalità sono assenti.

La seconda continuità è nella scarsa presenza, sempre nei telegiornali di prima serata,  delle voci di migranti e rifugiati: il 7% di interventi in voce, contro il 47% della politica per esempio. Percentuale che si riduce ulteriormente al di fuori della “questione migratoria”. Con una visibilità nettamente a favore degli uomini (86% di presenze maschili contro il 14% di quelle femminili) che contraddice un dato di realtà – legato alla presenza delle donne straniere in Italia – e che appunto riconferma uno stereotipo datato.

Ci troviamo in una fase in cui, come sottolinea il politologo Ilvo Diamanti nella prefazione al rapporto, “dopo anni di inter-azione – stretta – fra percezione e rappresentazione, l’immigrazione sembra essere divenuta meno centrale, nel sistema dell’informazione. Certo, non è finito “fuori scena”, ma non è più al centro dell’attenzione sociale. Almeno, rispetto agli ultimi anni.  Si tratta di una novità, perché i due orientamenti, percezione e rappresentazione, si sono “inseguiti” a lungo. Indifferenti all’andamento della realtà. Visto che le misure dell’immigrazione sono, da tempo, costanti. Cioè, assai lontane, e minori, rispetto alla retorica dell’invasione”.

Il passaggio dallo  “spettacolo dell’immigrazione”,  ansiogeno e sovrapposto all’agenda politica,  a quello dell’assuefazione e dell’indifferenza, è complesso e delicato insieme. Praticare un “giornalismo di contesto”, dando voce a cittadini stranieri integrati su eventi che riguardano la loro comunità (eventi di cronaca nella madrepatria, festività e ricorrenze…), o ancora dando spazio a episodi che raccontano i nostri territori come una civiltà multietnica ma non conflittuale, appare l’unica strada percorribile per smontare pre-concetti e luoghi comuni.


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