Contro il laido business della mafia a tavola

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Gian Carlo Caselli

Rita Dalla Chiesa ha denunziato un fatto assai grave. In Spagna vi sono ristoranti che ostentano un’insegna vergognosa: “La mafia se sienta a la mesa” (la mafia si siede a tavola).

E ciò con arrogante spregio di un provvedimento del 2016 dell’Ufficio della proprietà intellettuale dell’Unione europea (EUIPO) che, su segnalazione di uno studente italiano di Erasmus, aveva annullato quel marchio, usato da una catena di quasi 40 ristoranti. Annullamento confermato nel 2018 dalla Corte di giustizia dell’unione europea (CGUE), che ha respinto il ricorso del titolare del marchio.

Il sito Internet dell’azienda declama locali “arredati con cura in stile mafioso”. Alle pareti sono appese gigantografie e foto della trilogia de “Il padrino” di Francis Ford Coppola. Il menù mischia ricette spagnole ai tradizionali piatti italiani, cucinati con materie prime importate dall’Italia. Esistono anche “Club La Mafia Lounge”, dove farsi un drink. Sottinteso: provate l’ebbrezza (o il brivido) di sentirvi come un mafioso a casa propria. Ammazzare come lui non potete, ma almeno divertitevi a mangiare come fa lui….

Senonché i funzionari dei competenti uffici europei si sono rivelati nient’affatto moderni. Non conoscono la canzone di De Gregori: “Legalizzare la mafia sarà la regola del Duemila”. Preferiscono ancora pensare che quel marchio è contrario alla moralità e all’ordine pubblico; e che il titolare non può avvantaggiarsi, nell’esercizio della propria attività economica, di un marchio che viola i principi fondamentali di una convivenza civile e democratica, percepito dal pubblico (appena un po’ attento e responsabile) come chiaramente evocativo di organizzazioni criminali che in Italia – e non solo – hanno disseminato terrore attraverso atteggiamenti di intimidazione, violenza fisica e psicologica per raggiungere i propri obiettivi. Una motivazione saggia e una decisione coraggiosa. Che però, evidentemente, non riesce a scalfire nemmeno un po’ la protervia di coloro che non esitano a sfruttare un brand infame e osceno, di devastazione e di morte , come quello della mafia, pur di far soldi.

Basterebbe che questi “signori” leggessero ogni tanto qualcosa. Potrebbero anche imbattersi nella storia di Peppino Impastato (vittima della ferocia mafiosa) che, in faccia a don Tano Badalamenti, boss di Cinisi, ogni giorno coraggiosamente urlava – attraverso la sua piccola radio libera – che “la mafia è una montagna di merda”. E con la merda, “a la mesa” non si fanno di certo manicaretti. Lo dicano, certi gourmet, ai loro stupidi clienti.

Intanto, che le autorità italiane– per favore – si facciano sentire da quelle spagnole, perché cessi lo sconcio di un laido business che pur di vendere e riempirsi le tasche offende – oltre che la morale e la giustizia – anche il buon gusto.

Huffington Post, il blog di Gian Carlo Caselli

Da liberainformazione


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