Marchisio: molto più di un calciatore

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Ha detto addio al calcio giocato un fuoriclasse come Claudio Marchisio, l’ultimo brandello di piemontesità in una Juve sempre più internazionale e multietnica, non a caso accantonato con eleganza da Madama già la scorsa stagione per far posto al nuovo corso globale che prevede sempre più campioni fatti e finiti e sempre meno attenzione ai sentimenti e persino alla gratitudine. Eppure, vedendolo l’altro giorno in conferenza stampa, nella sala intitolata a Gianni e Umberto Agnelli nel cuore dello Stadium, si capisce che quell’ultimo sussulto di torinesità, lampante fin dal cognome, non solo sia rimasto ma abbia trovato, nel distacco e nella resa al tempo che inevitabilmente passa per tutti, una nuova armonia. L’altro giorno, ascoltando Marchisio, la sua maturità, la sua saggezza e il suo prendere atto che mente e corpo non vanno più d’accordo e che, pertanto, per un protagonista del suo livello, purtroppo falcidiato dagli infortuni, fosse impossibile restare in campo se non da comprimario, ho avvertito la passione tipica del primo giorno. Quella passione che è, al tempo stesso, gioia, poesia, adrenalina, un entusiasmo impossibile da descrivere a parole in quanto va oltre l’infinito, portando un ragazzo timido e misurato come Claudio a vivere ogni partita al cento per cento.

Tuttavia, Marchisio è stato molto più di un semplice calciatore. Ricorderemo, ad esempio, le sue battaglie a sostegno dei rifugiati, contro i cambiamenti climatici, in favore dei diritti civili e contro ogni forma di barbarie. Ricorderemo e continueremo ad apprezzare il suo stile, la sua correttezza, la sua serenità e la sua gentilezza d’animo. Marchisio è, infatti, un uomo che non si vergogna di essere buono nella stagione dell’abisso, una di quelle rare persone che non si rassegnano alla follia contemporanea che induce troppi a odiare senza vergogna, uno di quelli che contrastano l’orrore con gesti concreti, che non hanno paura di esporsi e dire la propria, che quando servono ci sono sempre, al servizio dei colori che amano e di una società che come noi vorrebbero vedere migliore, anche per lasciarla in eredità ai propri figli.

Se esiste ancora lo stile Juve, se il ceppo bonipertiano non è andato perduto, se ancora ha senso parlare di una diversità della Vecchia Signora rispetto alle altre squadre, se ancora si può essere orgogliosi di una fede sportiva che, come sosteneva Italo Pietra, era anche un modo di intendere la vita, se tutto questo è ancora possibile è soprattutto grazie a personaggi positivi e limpidi come Marchisio, il quale ha scelto di tornare a casa per compiere la scelta più difficile e significativa della sua carriera.

Chiude a trentatré anni, dopo aver molto giocato, molto sofferto, vinto tutto in bianconero tranne l’agognata Champions League e vissuto un’esperienza di valore in Russia nelle file dello Zenit. Chiude da par suo, con la consueta eleganza e onestà intellettuale, senza rancore, senza rimpianti, e siamo certi che ora potrà dire la sua in parecchi campi, anche fuori dal calcio, essendo un uomo curioso e uno di quei campioni dai quali c’è sempre tanto da imparare.

Venticinque anni d’amore in bianconero, praticamente una vita, il saluto faticoso ma giusto e infine il ritorno, là dove è iniziata la leggenda di un nuovo ciclo di vittorie dopo anni di purgatorio, là dove ha vissuto esperienze indimenticabili, là dove il ragazzo che era è diventato un punto di riferimento per chiunque creda ancora nei valori dello sport.

Buona lunga vita, caro Claudio! C’è un mondo da esplorare e i tuoi occhi sono adatti all’impresa.

P.S. In questi giorni ricorrono due anniversari importanti, anche se diversissimi: i quarant’anni dall’elezione a sindaco di Roma di Luigi Petroselli e i venticinque anni dall’assassinio di Nicholas Green,  un bambino americano di sette anni ferito a morte da un colpo di pistola esploso durante un tentativo di rapina sulla Salerno-Reggio Calabria ai danni della sua famiglia. Il primo,  pur avendo amministrato per appena due anni, è ricordato come uno dei sindaci migliori e più amati che Roma abbia avuto. Il secondo, grazie al coraggio e alla lungimiranza dei suoi familiari, ha aperto in Italia la frontiera della donazione degli organi. Due esempi tragici e meravigliosi, da non dimenticare.


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