La risata scalena dei sommersi, Joaquin Phoenix e il suo Joker

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Sono stato un burattino, un povero, un pirata,
un poeta, un pedina e un Re
Sono stato su e giù e al di sopra e al di fuori.
E so una cosa:
ogni volta che ritrovo me stesso
schiacciato sulla la mia faccia
mi tiro su e torno in gara. That’s life, feat. Frank Sinatra

Hai avuto pensieri negativi?
– Io ho SOLO pensieri negativi. Joker

All’inizio è solo una questione di ratti schifosi. Di immondizia virtuale – i notiziari che vomitano la solita sbobba sui “tempi duri” – e reale – le strade invase da neri sacchetti di indifferenziata per lo sciopero dei netturbini – di una Gotham City piena di crepe che balla felicemente la sua fine ventura sulle note di un ragtime di strada. Come Arthur Fleck, clown part-time (sottopagato), giornalmente preda se non della teppaglia cittadina di un’indifferenza forse peggiore: morale (quella dei suoi simili) e materiale (un condominio sporco, anonimo e triste come le stanze che abita), assoggettato com’è ad un vissuto quotidiano che si declina solo in un lavoro alienato e incerto come la sua salute mentale; un’oscurità esistenziale insomma, che profuma di farmaci antidepressivi e di verdure per la madre malata che Arthur accudisce con paziente tenerezza.

Vige un’atmosfera “disturbata” nel “Joker” di Todd Phillips, violento e straziante, nero e commovente che la colonna sonora antifrastica – da Frank Sinatra a Jimmy Durante; da Tony Bennett a Donovan; da Fred Astaire a Nat King Cole – rende ancora più labirintica e aggrovigliata.

Tranne i sorridenti ebeti seduti alla Casa Bianca, un paio di intoccabili mafiosi, alcuni pezzi grossi della NSA, per non parlare dei boss (leggi: amministratori delegati) delle multinazionali, pochi hanno conosciuto (o sospettato) la vera America, se non quella forzatamente celebrata in tutte le salse mediatiche: fatta di inni nazionali, di lacrime sincere, di mani aperte sul cuore mentre sventola la bandiera e l’aquila si libra fiera nell’alto dei cieli, specie quelli mediorientali. Finalmente però, sulla facciata pulita e linda di quell’America comincia ad arrivare, ormai da tempo, un po’ di merda fresca: e questo “Joker” sembra finalmente tirare le somme di una lunga tradizione (non solo cinematografica) controcorrente, al vetriolo – e di altissimo livello – : da “American Tabloid” di Ellroy (1995), a “Uncle Sam” – per riferirci al fumetto – di Alex Ross (1997) solo per fare alcuni esempi.

Il corpo sonoro e sociale di Arthur-Joker – un Joaquin Phoenix inarrivabile (e già scandalosamente espropriato della Coppa Volpi all’ultima Mostra del Cinema di Venezia) – declina, in un fisico da deposizione, una metamorfosi singola e collettiva, proiettando sulle sue articolazioni scheletriche e tumefatte i traumi sociali di un’America pre-apocalittica; un martirio continuo e sistematicamente sostenuto dal loop perturbante della sua risata sgrammaticata, afflitta, insostenibile. E questa sua prepotente grandiosità interpretativa ci ricorda per intensità e capacità di penetrazione caratteriale il Christian Bale del kafkiano “L’uomo senza sonno” (di Brad Anderson, 2004) e lo Xavier Bardem di “Non è un paese per vecchi” (i Coen da Cormac McCarthy, 2007). Ma il riferimento più diretto ci pare lo stesso Phoenix de “A Beautiful Day – You Were Never Really Here” (di Lynne Ramsay, dalla penna di Jonathan Ames) vera e propria prova generale di “Joker”: un uomo traumatizzato dal suo passato pronto ad esplodere nella violenza più pura e autodistruttiva.

Eppure è un buono, Arthur, che si illude che ogni tassello – lavoro, amore, affetti, salute mentale – possa andare tranquillamente al suo posto. Ma l’illusione dell’illusione è surrettizia ed è la più infida delle illusioni e si sbriciola davanti ad una vita senza verità. Arthur comincia poco a poco a comprenderlo (uccidendo quasi per caso tre balordi yuppies, i primi di una lunga scia di sangue): nella società dello spettacolo – disilluso ormai anche dell’amore materno (era stata o no l’amante di Wayne senior, adesso candidato a sindaco? e lui poteva addirittura essere il frutto di quella relazione?) – non può che mutarsi in qualcun altro. Joker infatti – parafrasando proprio Debord – “si produce da sé stesso, si fa signore e padrone del suo mondo che è la storia, e che esiste come coscienza del suo gioco.” Si ricrea giorno per giorno, ormai disinteressato a disciplinare logicamente i segnali che riceve da una realtà incoerente: è il signore della trasgressione in un mondo che è diventato un immenso teatro dell’assurdo.

Joker però è un disertore senza malizia (per dirla con l’Enznsberger di “Politica e terrore”) anche se sue azioni libereranno la furia di classe – il mondo dei freaks cui appartiene funziona perfettamente come metafora di ogni sfruttato – e, di ritorno anche la sua: solo attraverso la violenza priva di giustificazione, Joker si riappropria dell’immunità e dell’intoccabilità che una volta il mondo concedeva e sopportava, per farsi demiurgo onnipotente della città. Da questo punto di vista “Joker” riflette le inquietudini metropolitane contemporanee: non è certo un caso che la Gotham di Phillips echeggi essenzialmente New York (ovvero l’icona della megalopoli moderna): ma è anche Hong Kong, le banlieu parigine, le periferie a rischio di Bruxelles o quella disagiata di Librino.

La danza sulle note maledette di “The Hey Song”, di Gary Glitter lungo le scale del quartiere di Highbridge, sembrano celebrarle tutte con sinistra leggerezza: Gotham è uno specchio: è autodistopica. Una città in cui (come notava giustamente Daniele Porretta in “Immagini della città del futuro nella letteratura distopica della prima metà del ‘900”) dominano “la verticalità, l’artificialità, il gigantismo, la densità”. Una metropoli in cui la city linda degli uomini d’affari in doppiopetto è appena sfiorata: le sequenze di Phillips ci mostrano piuttosto gli slums, i sottopassaggi abitati da barboni e frequentati da disoccupati e alcolizzati, (lampeggiano quasi in modo subliminale echi da “La strada” di Cormac McCarthy, ancora!), i bar di second’ordine, i fast food come schegge impazzite di colore conficcate nella sera, le stazioni della metro, il vai-e-vieni affollato e sudaticcio dei pendolari: davvero memorabile la sequenza in cui il treno è un ago che inietta la sua dose di forza-lavoro nelle vene di una città che mostra all’orizzonte i falli dei suoi grattacieli.

Per molti della mia generazione – quella che divorava le graphic novel di Grant Morrison e di Frank Miller che si faceva un’idea più vera dell’America e del mondo leggendo Howard Chaykin e Alan Moore – questo “Joker”, paradossalmente, non ci sorprende affatto: è finalmente vero. Todd Phillips ci restituisce un personaggio che nelle altre pellicole, incentrate tutte sul Pipistrello (che qui è solo un piccolo ratto aristocratico ancora senza le ali), pareva solo una “spalla” (anche se con interpreti eccezionali), una caricatura gotica di se stesso: tutto sommato solo un “semplice” criminale fuori di testa, intelligente e diabolico secondo i cliché, spassoso a tratti. L’umorismo di questo Joker, al contrario, non spinge affatto al riso, è pirandellianamente la forma di una verità inconoscibile. Anzi: insostenibile.

Con “Joker” il cinema scopre forse solo adesso gli abissi del fumetto e la sua capacità di leggere e anticipare la disgregazione della società attraverso il filtro del disagio e della malattia: perché Joker è, in fondo, uno tra le anime sommerse che lottano contro la disperazione e la follia, abbandonate pure dai servizi sociali che chiudono baracca per mancanza di fondi, lasciate alla deriva di se stesse. Allora lì dove ogni cosa è diventata impossibile, Arthur si libera di se stesso. Sboccia: completo, libero, amorale: Joker appunto. E’ lui il lusus, il controcanto irrazionale del mondo. E la sua risata finale isterica, scalena – che ricorda quella conclusiva dei “Sei personaggi” – diventa un ghigno che ci scava dentro. Ancora. E ancora.


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