Un ricordo di Ugo Gregoretti

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Ho conosciuto Ugo Gregoretti nell’estate del ’68 durante le giornate di contestazione del Festival di Venezia. Notoriamente compassato, Ugo si era spinto a sequestrare il sindaco di Venezia chiudendolo a chiave nei gabinetti del palazzo della Mostra occupato – e sgomberato dalla polizia – al grido di “Mostra libera”. In quel clima di rivoluzionaria trasandatezza, Ugo si distingueva per la sobrietà della sua eleganza. Con la sua aura di osservatore distaccato e perspicace era la personalizzazione del flâneur descritto da Walter Benjamin: l’uomo dallo sguardo penetrante che, mosso dalla curiosità, si lascia sedurre da storie di varia umanità. Scruta i personaggi, ne coglie la verità e se ne fa interprete.

Ugo è stato uno straordinario regista di cinema, teatro e televisione ma ancor più grande, a mio parere, è stato il Gregoretti giornalista che con le sue inchieste sul costume degli italiani ha dipinto un affresco che fa da sfondo alle vicende politiche della seconda metà del nostro Novecento. Ugo si avvicinava al mondo della vita col disincanto del poeta che si lascia attrarre da vicende minute di protagonisti e vittime della realtà sociale, espressione, spesso inconsapevoli, delle grandezze e miserie del nostro tempo. 

Gregoretti militante sarà ricordato come l’autore dell’Apollon, il documentario-inchiesta girato nella tipografia occupata dagli operai durante l’autunno caldo; ma questo rischia di mettere in ombra un altro versante della sua passione civile che ha, nello Dziga Vertov de L’uomo con la macchina da presa, il suo campione.

Le inchieste di Controfagotto e Sottotraccia, infatti, raccontano storie semplici, ritratti di persone comuni descritte con ironia e con uno sguardo, il suo, che è al tempo stesso critico e affettuoso.

Nel 1998, quando mi fu data l’opportunità di dirigere Rai Educational, chiesi a Ugo di dare il suo contributo a quel grande laboratorio di ricerca storica che è stato La storia siamo noi.  Gli chiesi, in particolare, di realizzare un’antologia delle sue inchieste sociali attualizzandole: un’operazione analoga a quella fatta con Sergio Zavoli con Diario di un cronista.

Nacque, così, la serie televisiva in quindici puntate Questo è il mio paese, un titolo che prende spunto dal grido di felicità lanciato dal garzone che accompagnava

Goethe, al ritorno da una gita sul Vesuvio, allorché, a una svolta della strada, gli apparve Napoli in lontananza. Perché, non bisogna dimenticarlo, Ugo è un napoletano di adozione cresciuto tra i vicoli della Capri descritta da La Capria in Ferito a morte e i vicoli dei quartieri spagnoli: figlio di buona famiglia con l’animo dello scugnizzo, un’antinomia che Ugo ha saputo rendere virtuosa e geniale. (Non so se la serie Questo è il mio paese – di cui esiste anche un cofanetto di Dvd – sia mai stata replicata nel corso di questi vent’anni; comunque sia, varrebbe la pena trasmetterla di nuovo.)

Nella biografia di Gregoretti su Wikipedia è menzionata, solo di sfuggita, un’altra serie televisiva, Lezioni di design: eppure si tratta di una storia monumentale del design italiano in quaranta puntate di un’ora ciascuna condotta con maestria da Ugo che accolse nello studio di Rai Educational, arredato con centinaia di oggetti messi a disposizione dalle imprese, i designer più famosi. L’eccezionalità di quest’opera fu tale che, per la prima volta, il prestigioso premio del Compasso d’oro fu attribuito a dei non-architetti. Insieme agli altri autori della serie Ugo ed io andammo alla Triennale di Milano a ritirare il premio,  emozionati e increduli perché assegnato, quell’anno, anche alla Ferrari. Sarà mai stata replicata o segnalata alle scuole di design? Chissà.

Si dà un nome alle strade per tener viva la memoria e l’opera di persone ragguardevoli. Bisognerebbe fare altrettanto con gli studi televisivi della Rai. 

I nomi che hanno fatto la storia del servizio pubblico non mancano: tra questi, ai primi posti, c’è Ugo Gregoretti. Si potrebbe iniziare da lui. 


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