Prova d’autore a passo di danza di William “Billy” Forsythe alla Biennale di Venezia

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L’americano William “Billy” Forsythe è il coreografo che più d’ogni altro, negli ultimi due decenni del ‘900, ha proiettato la danza verso territori prima di allora sconosciuti, e ne ha frantumato i confini. Uomo di profonda e non convenzionale intelligenza, dalla curiosità insaziabile, nel suo modo di costruire/decostruire la danza, faceva pensare ad un bimbo che esamina, smonta e rimonta, nel suo particolare modo, un mosaico, un lego, un qualunque altro tipo di macchinario o strumento. Perché è esattamente questo che ha fatto Forsythe per il balletto. Il risultato? Egli ha fornito, a chi le vuole leggere e utilizzare le chiavi di volta, gli strumenti per capire meglio, dall’interno, quella forma d’arte chiamata danza, e ognuna delle componenti del suo linguaggio: l’articolazione strutturale del corpo danzante, la consapevolezza dello spazio, la cognizione del tempo, il rapporto con la musica, l’incidenza delle luci. Più erano complicati in partenza, tali componenti, e più trovavano soddisfazione in lui e nel suo adorante pubblico. È stato così che intorno al suo nome ed ai suoi “manufatti” per il Frankfurt Ballett, da lui diretto, si è creata una sorta di aura. La consueta superficialità, segno distintivo del nostro tempo, particolarmente in Italia, ha generato un atteggiamento fideistico (“Ipse dixit, ipse fecit”) di totale assegnamento tale da determinare uno scarso onore per quanto acritica risultava tale posizione. Da Forsythe si attendeva sempre e comunque il “nuovo detto” in danza, la verità rivelata, il Vangelo Tersicoreo.
Non poteva essere così. Comunque lo si chiami questo “credo”, di per sé eccessivo e grottesco nelle aspettative, ben presto fu costretto ad un drastico ridimensionamento per la chiusura del Frankfurt Ballett. L’omonima municipalità tedesca si dichiarò stanca di finanziare una macchina tanto sperimentalmente azzardata, elitaria e costosa, quanto poco produttiva rispetto alla domanda di titoli di danza per il grande pubblico. A quella chiusura ha fatto seguito una pausa di riflessione e la creazione della Forsythe Company, un gruppo che ha visto alterne vicende. Ultimo indirizzo conosciuto della compagnia è quello del Sadler’s Wells, un teatro londinese dove con altri otto enti europei e americani, ha finanziato “A quiet evening of dance”, spettacolo eterogeneo e appassionante tanto da aver entusiasmato la platea del Teatro Malibran di Venezia, in programma nella quarta giornata della Biennale Danza.
Il debutto italiano dell’allestimento vincitore del premio Fedora-Van Cleef & Arpels Prize for Ballet 2018, è avvenuto al Teatro Grande di Brescia e si è visto successivamente nella stagione del Teatro Valli di Reggio Emilia. Una nuova data della rapsodica tournée italiana è prevista nell’autunno di quest’anno ospite del cartellone di RomaEuropa.
L’ultimo lavoro di Forsythe, del quale il web riproduce solo alcuni frammenti, comunque eloquenti rispetto ad una immediata verifica concettuale, è stato creato con opere nuove e brani del suo repertorio. In scena a Venezia, con sei ex ballerini della sua Forsythe Company, si è visto un singolarissimo danzatore di hip hop, Rauf “RubberLegz” Yasit, giustifica in pieno il soprannome di “gambe di gomma”. Tutti e sette i danzatori si distribuivano in una silloge, divisa in due parti: un primo atto, di 45 minuti, diviso nei duetti “Prologue” e “Catalogue (second edition)”, aggiornamento dell’omonima coreografia del 2016, ed “Epilogue”, con tutti gli elementi in scena. Alla pausa faceva seguito “Dialogue” (DUO 2015), duetto parte dello spettacolo di addio alle scene di Sylvie Guillem. L’ultima parte, quella più trascinante e seducente, dal titolo “Seventeen/Twenty One”, aveva come quadro e cornice brani da “Hyppolite et Aricie”, di Jean-Philippe Rameau, formidabile contrappunto sonoro a tanta grazia visiva.
Per ognuna delle parti dello spettacolo, il coreografo ha invitato il pubblico a “guardare dentro” gli ingranaggi della danza. L’allestimento risultava ben oltre ogni tentativo di categorizzazione dei segreti di come crea la danza Forsythe: i danzatori venivano messi alla prova diabolicamente attraverso una “virtuosità introversa”, se così possiamo definire questo modo di danzare/creare, sdrammatizzata ma affascinante. Per questa inusuale proposta, il coreografo ha immaginato qualcosa di simile ad un concerto di musica da camera, ideato per essere visto/ascoltato. Le modalità della creazione coreografica spaziavano dalla concentrazione analitica minimale, ora su assenza di suono ora sui “Nature pieces from Piano N.1”, sillabazioni in bianco e nero composte nel 1958 da Morton Feldman, sino al contrappunto di ispirazione barocca, con momenti di grande intensità espressiva, e sprazzi di pura gioia. La chiave di volta della serata consisteva nello stretto rapporto con la tradizione del balletto classico accademico. In un continuum di grande complessità, Forsythe ha passato in rassegna quasi ogni segmento o frase del balletto classico, ad eccezione dei momenti di maggior virtuosismo, come i manèges e le volées, ad esempio. “Il resto”, con aggiunta di varie “incidenze” risultava spezzato, segmentato, incrociato, ricomposto rispetto alla tradizione, mostrato per mille molteplici volti, utilizzi e declinazioni ogni volta diverse, seguendo un filo rosso che trovava una propria ragione in senso umoristico, enigmistico, didascalico o assertivo. Il tutto svolto a perdifiato, in poche manciate di secondi per ogni micro o macro sequenza. I danzatori, contrassegnati da due colori, per il sopra e il sotto, in modo da rendere ciascuno unico e personalmente distinguibile dagli altri, mentre i loro corpi sfilavano sovrapposti, inseguiti, incontrati, “fusi”, allacciati, intersecati, e impegnati in varie altre azioni; ivi compresi, in primo piano, i diversi giochi delle braccia e gambe usate come “corde intrecciate”, mirabilmente eseguiti da “RubberLegz” Yasit, fachiro dell’ortopedia.
Il risultato ottenuto è un’ insieme sorprendente ed esaltante, musicale e atono, in un crescendo o diminuendo di fuochi visivi e sonori, di suggestioni e desiderio di molto altro ancora. Quella di Forsythe è stata una vera e superba lezione di intelligenza del corpo e delle quasi infinite possibilità che a questo sono concesse in danza. Un’occasione , però, malamente disertata e ignorata proprio dagli stessi artisti e colleghi presenti alla Biennale nei giorni precedenti, dove avevano dato ampia prova della propria inconsistenza.


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