Torre Maura. La rivolta del pane calpestato

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Un pezzo di pane non si nega ad alcuno> recita un  antico adagio, di casa   non so più in quale regione italiana. Forse in tutte.

Il pane, componente essenziale dell’alimentazione  umana nei nostri paesi, è nelle nostre culture simbolo della vita, tanto che sin dall’antichità è divenuto cibo rituale: degli Ebrei, che, azzimo, lo chiamano  pane della liberazione, con riferimento alla schiavitù in Egitto da cui si liberarono scavalcando il Mar Rosso; e dei Cristiani, per i  quali   spezzare e condividere il pane (azzimo come l’ostia, o lievitato) è divenuto segno dell’ aspirazione dei singoli e delle comunità  a condividere la propria vita con quella degli/delle altri/e sino a spenderla per loro, sull’esempio  di quel che, secondo  il racconto dei  Vangeli, fece Gesù di Nazareth.

Il pane dunque ha per noi, come afferma Gad Lerner, qualcosa di sacro.

Per questo le immagini del pane calpestato a Torre Maura, portate nelle nostre case dalla televisione, sono state sensazionali.  Calpestare il pane, che era destinato ad alcune famiglie della minoranza più disprezzata ed emarginata di tutte,  manda un messaggio preciso: non vi riconosciamo il diritto di esistere, vi neghiamo la possibilità di vivere e per questo distruggiamo il cibo che dovrebbe sostentarvi. Dunque il pane che  da segno di vita, quando è  donato, diventa  strumento di morte, se negato , è quel che si è visto a Torre  Maura.

Ma al di là del significato simbolico, che in questo caso rappresenta  fedelmente, per quanto terribile, il senso  della protesta,bisogna sforzarsi  di scoprirne  i moventi  e rintracciarne le cause profonde, antiche e recenti,  sfuggendo a  becere semplificazioni  e a facili condanne.

A mio avviso   quel che è avvenuto  a Torre Maura segna la crisi, assai vicina al fallimento, di due disegni, riguardanti uno il modello di città e l’altro le modalità con cui si intende realizzare il “superamento” dei campi denominati nomadi.

Quanto al disegno della città, riducendo a poche battute un discorso che meriterebbe ben altro spazio di quello consentito nel corpo di un articolo, va ricordato  come  Roma ha indirizzato la propria modernizzazione. L’ ha indirizzata secondo le linee del modello gerarchico e classista  della città industriale, caratterizzando  e qualificando  i diversi  spazi del suo  territorio urbano a seconda della funzione a ciascuno assegnata  e spostando  nelle periferie le classi popolari; periferie   nate sin dall’origine quindi  con una scadente qualità urbana, contrapposta all’effervescenza degli altri spazi dove l’affluenza di arti, scienze, cultura, energie professionali e imprenditoriali dava luogo ad una massiccia  presenza dell’<effetto città>,inteso come clima caratterizzato da vivacità intellettuale, creatività,inventiva,capacità di  innovazione e di  novità organizzative. Il tutto funzionale  alle esigenze dell’espansione capitalistica, in particolare della sua  fase fordista.

Con il  passaggio dal Fordismo, con le sue grandi fabbriche e la sua “logica” inclusiva di territori  e di strati sociali, alla Globalizzazione, con la sua logica fortemente selettiva,  che concentra  i sistemi produttivi e  i centri decisionali, l’economia  della capitale va in crisi. Per quel che riguarda l’Europa la concentrazione dello “sviluppo”  avviene lungo l’asse Milano Amburgo Londra, l’area dalla    famosa sagoma a forma di “banana”.

Per il suo rilancio  Roma  punta sull’offerta, per dirla con le parole del compianto Bruno Amoroso, del suoi <spazi ricreativi e culturali che possono essere colonizzati e messi al servizio degli abitanti ricchi della Triade (Europa.USA, Giappone). Le sue ricchezze storiche e naturali, se mercificate, possono divenire fonte di sfruttamento turistico intensivo per i ceti medi in cerca di consolazione alle proprie frustrazioni sociali (e politiche) prodotte dalla Globalizzazione>. A tal fine <i quartieri storici del centro, vanno sgombrati e questo si può attuare lasciando funzionare i meccanismi del “mercato”, deportando i suoi abitanti verso le vecchie e nuove periferie e sostituendo il tessuto urbano con alberghi di vario di tipo, abitazioni di lusso riservate ai pochi privilegiati, meglio se stranieri ricchi>.

Lo chiamarono “Modello Roma” e specialmente per le classi popolari non è stato un  gran che.

Con il Modello Roma il disegno  di città industriale  perde di senso

Le periferie, specie le vecchie, vengono abbandonate a se stesse sicché la qualità urbana decade ulteriormente sino a livelli insopportabili. E poiché le fonti di reddito delle classi popolari si rarefanno e si sterilizzano, nelle periferie al degrado ambientale si congiungono disagio e marginalità sociale. Disoccupazione, mancanza di servizi,assenza di prospettive, isolamento e degrado costituiscono una miscela esplosiva  che non attende che un innesco per esplodere. Nel caso di Torre Maura ad agire da innesco è stata l’insipienza  con la quale si è effettuato,senza minimamente preparare i residenti all’accoglienza, l’inserimento di un buon numero di famiglie  rom. E’ assurdo muoversi in tal modo in un contesto  territoriale  di forte degrado  materiale e di grande sofferenza sociale. Ma così è stato fatto.

Al di là delle connotazioni razziste impresse alla reazione popolare anche dalla presenza di Casa Pound e Forza Nuova, quello della popolazione di Torre Maura  è stato anzitutto un moto di ribellione nei  confronti di Istituzioni  che utilizzano spregiudicatamente  le periferie come discariche sociali ed il cui operato viene di conseguenza  visto da chi vi risiede  non  per ridurre degrado e disagio  ma per aumentare e l’uno e l’altro. E’ emblematico che a motivare  il rifiuto della vicinanza  di Rom è la indiscriminata accusa mossa loro di essere tutti ladri. Accusa sintomatica della paura di essere derubati, da chi è ancora più povero e disperato, di quel pochissimo che si può possedere.

Prendersela con chi ha organizzato il trasferimento dei Rom sarebbe non solo ingiusto ma sbagliato. Sarebbe cadere nel solito errore di fermarsi a guardare  il dito invece che cercare di vedere la luna. E’ tutto il “Piano per il superamento dei campi” apprestato da Roma Capitale ad essere impostato sul  “metodo dei polli in batteria”. Il Piano  punta alla chiusura dei campi invece che a  renderli superflui, in questo senso superati, perché  svuotati a seguito del successo di processi di inclusione sociale basati su percorsi di responsabilizzazione  dei singoli individui e dei nuclei familiari, come prevede  la Strategia Nazionale di Inclusione Sociale dei Rom Sinti e Caminanti approvata dal Governo Monti nel Febbraio del 2014, ad ora del tutto inattuata.

Sarebbe altrettanto   improprio ed inconcludente addossare   alla Giunta Raggi la responsabilità del fallimento del modello di città che essa ha ereditato già abbondantemente in crisi e della  situazione dei “campi nomadi” che le precedenti Giunte avevano creato e che “Mafia Capitale” aveva contribuito ad aggravare in misura notevole. Ma la responsabilità di aver abbandonato dopo la emersione di Mafia Capitale  i “campi nomadi” ad ulteriore degrado e disperazione privandoli di qualsiasi supporto con la eliminazione indiscriminata  e senza sostituirle delle associazioni che fornivano  alcuni servizi essenziali  e di  aver concepito e voler dare esecuzione ad un Piano  che considera il superamento dei “campi”  soprattutto   come un problema di decoro urbano ed ordine pubblico, è tutta sua.

Non è forse fuor di luogo ricordare in conclusione  che i campi    furono   allestiti originariamente  negli anni ottanta dello scorso secolo come campi di sosta per accogliere piccole immigrazioni  causate da condizioni di miseria e che le grandi ondate sono avvenute nel  ’91-’92 per gli scontri etnici in Bosnia  e dal ’99 a causa della guerra del Kossovo.Di conseguenza molti dei residenti nei campi sono profughi di guerra o loro discendenti, ai quali  si sono aggiunti a partire dal 2000 profughi della miseria che ha devastato paesi come la Romania.

Fu il Governo di Forza Italia e Lega che dichiarò  l’esistenza di un’ “emergenza nomadi” ed emanò direttive ai Prefetti per fronteggiarla. Emergenza che il Consiglio di Stato nel 2011  e la Corte di Cassazione nel 2013 hanno dichiarato inesistente, sancendo l’illegalità dei provvedimenti conseguenti  e   degli stessi campi. Per tanto  oltre che occuparci,come  ovviamente è  giusto, di comportamenti che non raramente sfiorano o oltrepassano la linea di demarcazione della illegalità di chi, privato di ogni diritto e spesso della stessa cittadinanza, è costretto a sopravvivere di espedienti, bisognerebbe occuparsi e preoccuparsi anche della illegalità nella quale si trovano le stesse Istituzioni. Basti pensare che Il Tribunale Civile di Roma nel 2013, avendo  riconosciuto a un cittadino rom di essere stato vittima di  discriminazione su base etnica,ha ordinato al Ministero dell’Interno di distruggere tutti i documenti che contengono i dati sensibili dell’uomo raccolti durante il foto segnalamento.  Per non aver saputo o voluto por fine agli esiti della  “Emergenza”  inventata da una politica fortemente marcata di razzismo di un nostro Governo, non pochi Comuni ed alcune Regioni sarebbero dunque passibili di pari sanzioni se solo  i Rom i Sinti e i Caminanti si organizzassero ed adissero la Magistratura.

Ecco dunque cos’è che ci svela, a ben guardare, la rivolta del pane calpestato: che a Torre Maura c’è un’ enorme esasperazione che, pessima consigliera, può indurre a comportamenti esecrabili, venati di razzismo ed illegali, ma che razzismo ed illegalità non nascono lì ma nascono ed albergano altrove; a Torre Maura come in altre periferie  ci arrivano di risulta. A Torre Maura però ci sono  anche   anticorpi se è vero che un ragazzo di   soli 15 anni, un tal Simone,  è sceso in strada  e  piazzatosi  di fronte a un esponente  di Casa Pound che incitava la gente  contro gli zingari lo ha contraddetto con fermezza e gli ha detto faccia a faccia: <Nun me va che no!>.

Mi domando se per quell’ “altrove” dove illegalità e razzismovemgono generati  ci sono sufficienti  anticorpi. Forse è il caso di organizzarci per produrli. E in fretta.


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