Caso Orlandi: quei nomi dimenticati su corso Rinascimento e dentro un diario…

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“Da molto tempo il mio assioma è che le cose piccole sono di gran lunga le più importanti” amava ripetere Sherlock Holmes. Una regola condivisibile anche per la scomparsa di Emanuela Orlandi, contaminata da minuzie mai definite che rappresentano il principale ostacolo al raggiungimento della verità sulla sua sorte. Basti pensare che ancora oggi, fra le tante, non sappiamo a che ora uscì da casa il giorno della sua sparizione, quando arrivò alla scuola di musica e chi fu l’ultima persona ad averla vista (la “rosa blu”).

Trascuratezze alle quali ecco aggiungersene altre, che balzano fuori dagli atti dell’inchiesta, a cominciare da un verbale affogato nel tempo e fra la polvere, che chiama in causa il luogo nel quale si aprì quel buco nero d’intrighi e misteri: la fermata dell’autobus di fronte al Senato su corso Rinascimento. Dove la sera del 22 giugno 1983 c’era anche un’altra ragazza. Una studentessa della “Da Victoria”: Federica. Mai menzionata finora e mai ascoltata dagli inquirenti. Che ne appresero il nome da un altro iscritto alla scuola, Antonio V., che ben conosceva Emanuela Orlandi perché sua allieva nel coro della chiesa di S. Anna dei Palafrenieri. La sera del fatto, allertato da Natalina Orlandi, aveva dato il suo contributo alle ricerche. E – come riferì alla Squadra Mobile che lo convocò il 21 luglio 1983 – aveva contattato anche Federica: Questa mi ha riferito che il pomeriggio del 22 giugno, uscita di scuola, si era avviata verso la fermata ATAC di corso Rinascimento, quasi di fronte al Senato […] Giunta all’altezza della tipografia del giornale ‘Il Popolo’ aveva raggiunto Emanuela. Insieme avevano percorso il breve tratto di strada fino alla fermata. Mi pare di ricordare che insieme alla Federica vi fosse anche la Casini Maria Grazia, così mi sembra che mi ha detto Federica. Erano rimaste in attesa e, successivamente, lei e Maria Grazia avevano preso l’autobus 70, diretto verso il centro, mentre la Emanuela era rimasta, in attesa, alla fermata stessa”.  

Aldilà che questa versione sia un de relato e sia differente da altre fornite su quegli attimi fatali – che qui per esigenze di spazio non è possibile affrontare – se era già nota la presenza della “rosa blu”, che tra l’altro secondo questa deposizione non poteva essere Federica, perché non sentirla? Anche lei si trovava nello stesso posto di altre due studentesse invece a lungo interpellate, Raffaella Monzi e Maria Grazia Casini (che mai la citarono), ma potrebbe aver visto qualcosa sfuggito alla loro osservazione (ognuno ha una sua sensibilità visiva) se non addirittura conoscere la “rosa blu”. La “Da Victoria” aveva più di settecento iscritti e le amicizie, secondo quanto mi è stato raccontato, andavano soprattutto per comunanza di età e di strumento. Quindi normale che fossero più le conoscenze visive di quelle effettive, ragion per la quale però un dettaglio come l’esistenza di questa ragazza assume ancor più valore nell’economia dell’enigma.

Invece “Federica” fu un nome dimenticato di fronte al Senato. Ma non per il destino, che lo fa riapparire nella rubrica del diario scolastico di Emanuela del 1982-83. Senza cognome, come sul verbale di V., accompagnato da un numero di telefono e da una scritta a mano, in stampatello, dal suono beffardo: “(INDOVINA CHI È)”. Fuorviati probabilmente dalla sfericità della scrittura, gli inquirenti nella penultima cifra lessero un “3” al posto di un “8” e rintracciarono una persona alla quale Emanuela Orlandi era del tutto estranea.

Però fra gli atti ufficiali non si rinviene una prosecuzione di accertamenti su quell’utenza telefonica. Perché? Ma soprattutto: perché quella frase accanto al nome, unico caso sui trentanove presenti nel diario? Sarebbe interessante capire anche in quale contesto fu scritta. La fresca memoria dei ricordi liceali contemplerebbe una sfida goliardica con alcune amiche, ma ciò comunque non soddisfarebbe il precedente interrogativo: da cosa nasce quell’aggiunta? Aveva qualcosa di particolare quella “Federica”? E chi era? In classe alle superiori nessuna delle compagne di Emanuela si chiamava così. Allora una studentessa della scuola di musica? Ai numerosi soggetti da me interpellati – ex studenti, docenti e personale di segreteria – non ha detto niente quel nome, assente anche dalla lista di persone vicine alla giovane flautista redatta dagli investigatori a fine ottobre 2008 e comprendente pure le amicizie del quartiere (c.d. “gruppo del Vaticano”). Infine, la domanda più logica: la “Federica” del diario e quella di fronte al Senato erano la stessa persona?

Perseguitata da innumerevoli e ricorrenti illusioni, alla vicenda di Emanuela Orlandi, più che ipotesi, occorrerebbero certezze. Perché, a conti fatti, siamo sempre fermi a quel mercoledì 22 giugno di trentasei anni fa. Eppure, un modo per muoversi, c’è: rispondere a queste (e altre) domande e illuminare tutte le zone d’ombra di quell’infausta giornata. Anche se a volte sono come le cose care a Sherlock: piccole. Ma proprio per questo, importanti.


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