La poetica delle case. ‘Asterusher’ di Michele Mari

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Secondo Gesualdo Bufalino gli scrittori si dividono in due categorie, i testimoni del mondo e i testimoni di se stessi. A questo secondo gruppo appartiene sicuramente Michele Mari del quale è recentemente tornata in libreria, in una nuova edizione accresciuta, l’autobiografia per immagini pubblicata dall’editore Corraini di Mantova, sempre corredata dalle splendide foto di Francesco Pernigo, il cui titolo, Asterusher. Autobiografia per feticci, lascia già presagire un mondo di suggestioni e di reminescenze letterarie caro a Mari e ben riconoscibile dai suoi più affezionati lettori. Esso unisce, infatti, in una crasi neanche troppo velata, i nomi di Asterione e Usher, derivanti rispettivamente dai racconti La casa di Asterione di Jorge Luis Borges e La caduta della casa degli Usher di Edgar Allan Poe. La casa, anzi le case, costituiscono il fulcro di questo libro. Gli oggetti e i ricordi che esse custodiscono danno vita ad un racconto autobiografico, che trattandosi di Mari, non può prescindere da una poetica degli oggetti. Quelle dello scrittore milanese sono case letterarie, autentiche case-libro: è pertanto naturale che una casa della letteratura abbia come esito logico e inevitabile una letteratura della casa. Ne sono una dimostrazione le didascalie collocate a commento delle foto: a parte quelle composte espressamente per questo volume (e che in alcuni casi citano opere di altri autori), le altre, la maggior parte, sono tratte dai libri di Mari e sono testi che l’autore ama pensare come «letterariamente continui, come parte di un unico metalibro».

La lunga serie di foto che compone Asterusher si concentra in particolare su due case di Mari: quella milanese, e quella di Nasca, piccolo centro in provincia di Varese, sulle sponde del Lago Maggiore. Esclusa dal libro è invece l’abitazione romana dello scrittore, in quanto non direttamente legata agli anni dell’infanzia e della prima giovinezza.

La prima sezione riguarda Nasca, il buen retiro, la casa che il nonno materno acquistò nel 1955 e in cui Mari è solito, fin dall’infanzia, trascorrere i mesi estivi. È proprio questa la casa adombrata in tante sue opere: dal maniero di Osmoc (che ha nella biblioteca il suo cuore pulsante) in Di bestia in bestia, alla casa di Scalna (quasi anagramma perfetto di Nasca) nel racconto eponimo di Euridice aveva un cane, alla magione di campagna di Verderame, la cui cantina nasconde inquietanti misteri. Fino ad arrivare all’ultimo romanzo, Leggenda privata, che in gran parte è ambientato proprio nella grande casa di campagna, e che costituisce un altro fondamentale capitolo di quell’ampia costruzione autobiografica che è l’intero corpus letterario di Mari.

Casa signorile, «ancorata in una fissità quasi minerale», la grande dimora sul lago ha delle caratteristiche che la rendono per certi versi analoga alle case landolfiane (oltre che, com’è ovvio, alla casa degli Usher citata nel titolo). Basta confrontare questa frase di Euridice aveva un cane: «nella nostra [casa] sentivo abitare lo spirito della morte», con quest’altra tratta dal romanzo landolfiano Racconto d’autunno per rendersi conto della notevole affinità tra i due luoghi: «su tutto era stesa la polvere del tempo, non la polvere, la particolare opacità delle cose morte, dovunque era il senso di gesti rappresi nell’aria». Inoltre basta scorrere le foto di pagina 16, 64 e 65 per comprendere come la dimora di Nasca potrebbe trovare una degna chiosa in quest’altro passo del romanzo di Landolfi: «tuttavia, […] l’insieme induceva la medesima impressione che l’esterno della casa, quella cioè di un fastoso abbandono». Nelle opere di Tommaso Landolfi la casa ha spesso un ruolo preminente, fino a divenire un vero e proprio ʿpersonaggioʾ e presenta delle caratteristiche di decadenza, mistero e semiabbandono che hanno finito per costituire un vero e proprio topos nell’ambito della narrativa landolfiana. È lo stesso Mari, nel capitolo de I demoni e la pasta sfoglia, dedicato allo scrittore di Pico, ad affermare che le dimore di Landolfi «sono anche e soprattutto una poetica». La medesima cosa potrebbe dire delle proprie.

Guardando le foto, sia di Nasca che di Milano, la cosa che maggiormente colpisce è il perfetto rapporto osmotico che si crea tra gli oggetti fotografati e le citazioni poste a commento: il brano citato è ideale chiosa alle immagini, e le immagini, sempre e comunque, anche nei casi meno evidenti e prevedibili, trovano nel brano il loro inveramento.

In merito al potente legame che unisce Mari ai propri oggetti non ci si può esimere dal citare (è egli stesso a farlo nella Prefazione) il trattatello intitolato Fantasmagonia, racconto che dà il titolo alla raccolta uscita nel 2012. Questo piccolo trattato, costituito da un «introibo» e da diciannove paragrafi, ruota attorno al tema della fantasmasi e presenta tratti profondamente autobiografici. Almeno due paragrafi, il dodicesimo e il diciassettesimo, si soffermano sulla relazione che l’apprendista fantasma intrattiene con gli oggetti: egli ama soffermarsi «con speciale affetto» su alcuni oggetti della casa, «provando in anticipo il lutto della loro perdita», ed è giocoforza che «proprio le cose cui più il proprietario pensava con prolettico rimpianto sono quelle che più, dopo la morte, lo imprigioneranno». In particolare, nel paragrafo diciassette, il futuro fantasma viene descritto come «soggetto commuovibile dagli oggetti». Ecco l’intero passo in questione, il quale non sfigurerebbe posto in esergo ad Asterusher: «Incapace di sciogliere il ghiaccio dei propri blocchi esistenziali, il futuro fantasma è pressoché escluso da un autentico commercio umano. Schiavo del solipsismo, fin da piccolo egli si abituerà a investire sentimentalmente nelle cose, siano essi oggetti (non necessariamente giocattoli), vestiti, elementi di architettura domestica. Queste cose lo commuoveranno, la sua stessa fedeltà a queste cose lo commuoverà: egli si penserà come soggetto commuovibile dagli oggetti, diventando pertanto oggetto egli stesso».

Il feticistico rapporto con gli oggetti (non è un caso che il sottotitolo di Asterusher sia proprio Autobiografia per feticci) legato spesso, ma non necessariamente, ai piccoli tesori dell’infanzia (giocattoli, giornalini, fumetti, per cui si vedano le foto alle pagine 86, 87, 88, 98, 99, 119) è una costante nella narrativa di Mari: gli oggetti sono cimeli, reliquie, talismani, da custodire gelosamente evitando che vadano perduti a causa dell’incuria o della disattenzione, e impedendo che finiscano in mani profane, quelle cioè di persone che non saprebbero apprezzarne il valore e la sacralità. Dal signor Kurz che nel primo racconto di Euridice aveva un cane sequestra sistematicamente tutti i palloni che i bambini dell’adiacente collegio fanno accidentalmente rimbalzare nel suo cortile, durante le loro partitelle, custodendoli dentro una serra – vero e proprio monumento alla memoria di quei piccoli e ai loro giochi – ciascuno con la sua targhetta identificativa recante la data del ʿsequestroʾ; al padre che in L’uomo che uccise Liberty Valance, in Tu, sanguinosa infanzia, sottrae al figlio i giocattoli per evitarne lo smarrimento e l’irrimediabile perdita; al professore che ne I giornalini (sempre in Tu, sanguinosa infanzia) appresa la notizia dell’imminente paternità decide di impacchettare e immagazzinare in cantina i venerati giornalini dell’infanzia perché non cadano nelle incaute e irriverenti manine del nascituro, che ignorandone lo status di vere e proprie reliquie, li impiastriccerebbe con i suoi pennarelli: è tutta una museologia degli oggetti. Repertandoli e catalogandoli secondo maniacali e certosini criteri tassonomici, il loro custode, il quale altri non è che l’autore stesso, rivela un compiacimento feticistico mediante il quale quei semplici tesori dell’infanzia si trasformano in oggetti erotizzabili.

Tra le foto che sono state inserite in questa nuova edizione accresciuta di Asterusher spicca, nella sezione di Nasca, fra le altre, proprio quella, a pagina 53, di un vecchio e logoro pallone da calcio, la cui didascalia non poteva che essere tratta da I palloni del signor Kurz. Lo stesso atteggiamento di cui si è detto sopra, si estende dai cimeli dell’infanzia ad altri oggetti riconducibili ad un periodo più tardo. Nella seconda sezione di Asterusher, quella dedicata alla casa di Milano in cui Mari vive dal 1983, è presente, ad esempio, una foto delle penne che ha utilizzato per scrivere i suoi libri «fin dentro l’attuale millennio», prima di «arrendersi» alla scrittura digitale: «assiepate come i soldati dell’antica falange», esse sono dominate dallo sguardo «severo e disdegnoso» del sommo Dante, il quale, dalla «sua specola alta» sorveglia la scrivania dello scrittore (foto di pagina 93).

Degna di nota è anche la foto (a pagina 94) di due bottiglie di profumo piene zeppe di mozziconi di matita «accumulati negli anni degli studi liceali e universitari», che Mari considera (lo scrive nella Prefazione) «un burocratico precipitato oggettivo di quegli studi, molto più garante e probante, per me, di un diploma di laurea appeso al muro». E ancora, a pagina 103, il suo libro più prezioso: una prima edizione dei Canti orfici di Dino Campana che ricevette in dono da un’amica della madre il giorno in cui si offrì di svuotarle un ampio scantinato.

Mentre fra le nuove entrate della sezione milanese sono da menzionare il «micro- archivio realizzato con scatole di fiammiferi» di pagina 85, risalente all’incirca al 1963; i ritratti su cartoncino di Enzo e Iela Mari, in cui entrambi i genitori figurano attorniati dagli strumenti peculiari della loro professione, disegnati da Michele bambino che poi li trasformò in puzzle grazie ad una fustellatrice che gli era stata regalata e li donò loro per il Natale del 1970 (pagine 108 e 109), e il bellissimo fiore di legno che il piccolo Michele costruì per la sua mamma intorno al 1965. A pagina 92, riprodotti poi in copertina, spiccano i due anelli di “fidanzamento” menzionati in Cento poesie d’amore a Ladyhawke.

L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma Asterusher è un libro che va scoperto pagina dopo pagina e sarebbe un peccato svelare troppo. Ciò che occorre sapere è che in questo libro non vi è spazio per l’effimero trascolorare degli oggetti, in Asterusher ogni più piccola cosa è immagine plastica dotata di una sua figurativa solennità che la sottrae al flusso obliante del tempo e la cristallizza in figura erotizzabile. Nelle immagini di questo volume regna la più indiscussa e indubitabile acronia, quella stessa alla quale rimanda il paragrafo sedici di Fantasmagonia, in cui viene spiegato come il premorto, e successivamente il fantasma, tenda a «contaminare le fasi della propria vita ricordandole come coeve», pertanto i ricordi «gli si affolleranno sotto la specie dell’indifferenza temporale», per questo motivo «lo stato memoriale del fantasma sarà […] all’insegna della più adiafora acronia». Si tratta di un comportamento che per taluni versi è analogo a quello adottato dall’autore nei confronti delle epoche letterarie alle cui forme linguistiche attinge con una disinvoltura che attraversa l’intero arco diacronico della nostra storia letteraria: le forme della lingua succedutesi nel corso dei secoli vengono utilizzate e mescolate come fossero sincrone. Il risultato è una prosa in cui gli arcaismi più peregrini convivono felicemente con formidabili neologismi, dove accanto al gioco della neoformazione lo scrittore si concede il gusto della deformazione (anche fortemente espressionistica), dove il registro aulico non disdegna l’accostamento al registro basso e triviale, e dove entrambi questi registri, in virtù del loro «divorzio dall’uso ordinario», risultano «equipollenti», ambedue permettendo alla pura «letterarietà» di dispiegarsi (è quanto Mari afferma in un suo scritto contenuto nel volume miscellaneo Parola di scrittore).

Dunque, gli oggetti consentono di ricostruire la poetica dell’autore, una poetica che a sua volta di quegli oggetti è figlia. Analogamente la casa è al tempo stesso madre e amante dello scrittore come risulta chiaro da un altro passo di Fantasmagonia: «pregna degli spiriti dell’inquilino, la casa gli è madre: madida dei suoi essudati, gli è amante».

Volendo restare ancora sui concetti di acronia, diacronia e sincronia, vale la pena soffermarsi su almeno altre due foto, la prima, a pagina 22, raffigura quattro lettini allineati in una camera della casa di Nasca, quattro lettini, che come spiega la didascalia tratta dal racconto I giornalini, potrebbero rappresentare «un’allegoria delle età dell’uomo», ma che pure sembrano sospesi in un tempo mitico: un tempo fuori dal tempo e pertanto sottratto al divenire. Ma è soprattutto l’altra foto, a pagina 116, nella sezione milanese, a imporre una simile riflessione. La didascalia – non tratta, questa volta, da alcun libro – si riferisce alla scultura lignea di un coccodrillo che Mari ha intagliato con le proprie mani. Tuttavia, l’essenza e l’intima verità di questa foto, che forse un certo pudore e una certa profilassi inducono l’autore a tacere, risiede altrove, ossia nell’acronica ʿsimultaneitàʾ dei tre bambini immortalati in altrettante foto appese alla parete: ai lati, nelle due immagini a colori, Rolando e Sergio, i figli dello scrittore, al centro, nella fotografia in bianco e nero, il piccolo Michele che stringe al petto il suo orsacchiotto. Poco importa che le foto a colori siano state scattate a cavallo tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, mentre quella in bianco e nero risale al periodo tra la seconda metà degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta: Michelino, Rolando e Sergio non solo possono collocarsi su un orizzontale piano sincronico, ma possono addirittura concedersi il supremo lusso di trascendere il tempo, fino alla «più adiafora acronia».

Ampliando la prospettiva tutto Asterusher potrebbe leggersi come l’autobiografia, per feticci, di un moderno puer aeternus, tanto più che lo stesso Mari ha dichiarato diverse volte di non sentirsi un adulto ma «un bambino invecchiato».

Puer aeternus, o se preferite, novello Peter Pan o malinconico Piccolo Principe, che ha trasfuso molta della propria emotività nei luoghi e negli oggetti che lo hanno accompagnato – e tuttora lo accompagnano – nel corso della vita, Michele Mari risulta così continuo e così compenetrato alle proprie case da richiamarmi alla mente, mentre sfoglio per l’ennesima volta Asterusher, le sibilline parole di Borges: «Risiedevo già in questo luogo, poi vi sono nato».


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