Agnese Fallongo va in scena e in guerra con la sua Letizia… e vince

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Agnese Fallongo è un’artista rara: sa recitare, cantare, scrivere e ascoltare. La trentenne romana si sta facendo conoscere nel panorama italiano grazie ai suoi spettacoli che affondano le radici nella tradizione popolare e raccontano storie di vita, leggende arcaiche, il dolore, le paure e le speranze della gente. Il pubblico la ama per la sua verità, un risultato a cui è arrivata con anni di studio, senza una tradizione teatrale familiare alle spalle, con un’ostinazione e l’esercizio instancabile di un sogno: quello di costruire un suo percorso di attrice e drammaturga. Dopo laboratori e corsi all’estero, porte aperte, porte chiuse, tournée, premi, col sottofondo costante degli applausi del pubblico, è arrivata anche nei grandi teatri romani. Nel 2017 è stata al Teatro Quirino, quest’anno, fino al 17 febbraio, è al Teatro della Cometa con il suo “Letizia va alla guerra. La suora, la sposa e la puttana”, storia di tre donne che attraversano buona parte del Novecento. La prima è una giovane sposa siciliana, che durante la Grande Guerra si muove alla volta del Friuli e va tra le portatrici carniche in cerca del marito, partito subito dopo il rito del matrimonio. La seconda Letizia, una donna di Littoria/Latina, lavora in una “casa di tolleranza” a Roma. Un ragazzetto, il biondino, interpretato dal fenomenale Tiziano Caputo, si innamora di lei. L’amore e la guerra, comunque intesa, non vanno però a braccetto. Suor Letizia, alla fine, farà da cerniera tra queste vite. Lo spettacolo è affidato alla regia di Adriano Evangelisti.
Ad Agnese Fallongo abbiamo chiesto di raccontarci le sue Letizie.

Chi è Letizia per Agnese Fallongo?
È il coraggio delle donne, la loro fragilità, la capacità di amare, l’essere a volte perdenti, la loro speranza e la forza di continuare a lottare nonostante tutto.

Le tre Letizie sono il frutto della sua fantasia o hanno riferimenti reali precisi?
La mia scrittura è in buona parte figlia della ricerca, dello studio di fonti storiche, in parte nasce dalle interviste che io realizzo con i testimoni. Ad esempio sono andata nell’orfanotrofio Gregorio Antonelli per cercare di respirare quelle atmosfere, per capire cosa significhi essere una suora che, a suo modo, è stata madre. Così come ho incontrato una donna che si prostituiva e ha vissuto negli Anni Cinquanta l’ambiente delle case chiuse.
Per la prima Letizia, la giovane sposa che diviene portatrice carnica in cerca di suo marito, ho lavorato sulle lettere delle crocerossine, delle portatrici di gerle e dei soldati. Quelle testimonianze mi hanno permesso di gettare uno sguardo sulle loro anime.

Cosa succede quando Agnese Fallongo, nella sua officina di drammaturga, si siede di fronte alla pagina bianca?
Sono molto riflessiva. Prima devo studiare, tanto. Entrare in un periodo storico, sentire gli odori, i sapori. Io scrivo spesso attingendo alla storia popolare e parto dai sensi. A volte invece mi aiuta la musica a entrare dentro un immaginario. Quando trovo la chiave giusta, allora prendo il via e mi faccio molte sorprese, perché parto da una linea, però poi ascolto anche ciò che il processo di scrittura stesso mi suggerisce.

Cosa unisce queste tre Letizie, cosa le divide?
Le divide l’età: la sposa ha vent’anni, la suora settanta e l’altra Letizia è nel mezzo. Le divide anche l’estrazione sociale, perché la suora ha alle spalle una famiglia più borghese, mentre le altre vengono dal popolo. Le divide il mestiere, ovviamente, il sacro e il profano. Anche la provenienza geografica è diversa, una viene dal Sud, una dal Nord e una dal Centro, tanto che parlano dialetti diversi. Tutto questo le distanzia, però, in fondo, sono più simili di quanto si possa credere. Se si potesse dire, le definirei “tre” facce della stessa medaglia.

Cosa sentono di dover dire queste donne allo spettatore?
Io sono una sostenitrice del motto historia magistra vitae. Dobbiamo sapere di chi siamo figli, dobbiamo immergerci nel nostro passato, mettere sempre sotto esame l’animo umano, che resta lo stesso, mentre i tempi cambiano. Se una storia è ben raccontata è sempre presente. I classici ce lo insegnano.

Pensa che alcune conquiste, mi riferisco a quelle femminili ma non solo, si possano perdere?
Purtroppo sì. Non bisogna smettere di lottare per mantenere i risultati ottenuti. La storia e la vita me le immagino, a volte, come una spirale infinita. Dobbiamo lottare continuamente.

Tra lei e il brillantissimo Tiziano Caputo, che la accompagna sulla scena, c’è ormai un sodalizio artistico…
Tiziano è il compagno di scena che ho sempre desiderato, in parte perché ci completiamo – siamo molto diversi – in parte perché ci unisce lo stesso immaginario e l’amore per la musica. Quando ho scritto questo testo mi sono resa conto di dover trovare un autore che sapesse suonare, cantare, forte sul piano comico come su quello drammatico, e capace di passare da un dialetto all’altro. In Tiziano ho trovato tutto. Oltre a questo, io sono ansiosa, mentre lui è molto posato e mi aiuta moltissimo anche sul piano umano.

Lei ha deciso di affidare la regia del suo testo ad Adriano Evangelisti e di un altro suo spettacolo, “La leggenda del pescatore che non sapeva nuotare”, ad Alessandra Fallucchi. Perché la scelta di non dirigere?
Per due motivi. Da un lato io non ho ambizioni registiche, dall’altro penso che un piccolo tradimento, se credi nel regista a cui ti affidi, può arricchire ciò che hai scritto. Essere l’autrice a volte mi ha aiutato, mi ha permesso un’aderenza immediata al personaggio, ma per me è anche essenziale dimenticare quel mio ruolo, per poter trovare, come interprete, sottotesti nuovi.
Una regia di una persona esperta ti sostiene. E poi scrivere, interpretare e dirigere… poteva farlo De Filippo.

Questo spettacolo è cambiato man mano ed è nato il personaggio della suora. Perché?
La bellezza ha bisogno dei suoi tempi. Gli spettacoli maturano insieme a noi. È come nei rapporti tra le persone: ci può essere il colpo di fulmine, ma poi per costruire una relazione ci vuole tempo, bisogna dedicarsi all’altro. Tengo tanto a questo progetto e, in controtendenza, mi sono voluta permettere il lusso di dargli lo spazio necessario per maturare. Credo che adesso abbia un respiro più ampio. Ha debuttato due anni fa e in questi due anni anche semplicemente il rapporto con il pubblico è cambiato. Abbiamo realizzato circa trenta repliche della prima versione e ormai una decina della nuova. La risposta del pubblico e i riscontri del regista hanno reso tutto più completo.

Lei gira molto nei paesi, nei piccoli festival. Ora è, però, in scena al Teatro della Cometa, a Roma. Che differenza sente?
Bisogna trovare un linguaggio che parli a diversi livelli. La battaglia sta nel cercare di arrivare a tutti. Lo spettacolo ha avuto sempre una buona risposta di pubblico. Forse in un teatro cittadino dà maggiore soddisfazione pensare che lo spettatore è più consapevole nella scelta, essendoci molta offerta. Insomma, se una persona esce di casa per vivere quel rapporto essere umano-essere umano che il teatro ti dà, quell’avvenimento unico, insieme a me, mi rende felice.

Il suo percorso di artista è particolare, lei è passata anche per la clownerie e il mimo. Le Letizie quanto portano con sé di questa sua ricchezza?
Tanto. Per anni mi sono sentita ai margini, ma era una mia convinzione. Sono partita dalla musica, pianoforte e canto, sono passata al teatro musicale, poi, appunto, al mimo, alla clownerie. Essendo entusiasta e molto curiosa non ho avuto subito le idee chiare e a volte sentivo il pentimento di non aver frequentato un’accademia, di non aver seguito un percorso più canonico. Ora, a trent’anni, con alle spalle oltre dieci di studio, mi sembra di essere fortunata per questa doppia visione, una più classica, una differente e più europea, avendo lavorato anche tanto all’estero. Quest’ultima ha dato più spazio al mio immaginario: la creatività deve trovare una forma per essere espressa, nel momento in cui comprendi quali sono i tuoi mezzi sei vincente.

Lei frequenta i giovani e insegna in ambito teatrale. Che rapporto hanno queste nuove generazioni con la scena?
Abbiamo fatto matinée per dei ragazzi e mi rendo conto che parlare a una generazione abituata a comunicare in trenta secondi, con una specie di barriera davanti, è difficile. È come dover abbattere un muro. Insegnando, poi, questo lo vedo moltissimo, quando lavoro sull’emotività delle persone. Per questo credo che abbiamo ancora più bisogno del teatro.

Il pubblico deve sorridere di più?
L’importante è che sia una risata intelligente. L’ironia deve essere una strada verso la riflessione o anche la commozione. Esistono poi spettacoli di puro divertissement, e non c’è nulla di male. Come nella vita di tutti i giorni, la risata può essere liberatoria, un esorcismo, avviene anche nei funerali a volte. Nel riso come nel pianto deve esserci la dignità dei sentimenti. L’equilibrio tra il riso e il pianto è la via regia per arrivare al cuore delle persone.

Chi è e chi vuole essere Agnese Fallongo in un’Italia come quella in cui viviamo?
Sto cercando di costruire la mia vita artistica, di crearmi un piccolo spazio in un panorama gigantesco e difficile. Io voglio raccontare belle storie, voglio raggiungere l’emotività delle persone. Per resistere serve determinazione, qualità, una tensione verso l’eccellenza. Bisogna avere fame, urgenza di dire qualcosa. Io quella fame e quell’urgenza le ringrazio.


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