La scienza sta costruendo la soluzione ai mali dell’umanità. Ma la politica se n’è accorta?

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Qualche giorno fa le agenzie governative statunitensi hanno annunciato che presto arriverà il via libera alla commercializzazione della carne prodotta in laboratorio a partire dalle staminali (si stima che comparirà sul mercato a partire dal 2020). Nello stesso arco di tempo si è venuto a sapere che all’inizio del 2018 la Cina ha ottenuto un nuovo record per quanto riguarda l’energia da fusione nucleare: il reattore sperimentale East ha raggiunto una temperatura di circa 100 milioni di gradi, quasi sette volte più del Sole.

Cosa ci dicono queste due notizie? Che ci dirigiamo a gran velocità verso un mondo in cui le risorse saranno al 100% pulite e inesauribili. Un mondo in cui la salsiccia del barbecue domenicale potrà essere ottenuta a partire da qualche invisibile cellulina prelevata da un suino. Un mondo in cui l’incommensurabile energia delle stelle alimenterà i computer e le automobili che usiamo tutti i giorni. E se vogliamo rincarare la dose, mi permetto di segnalare che il 22 novembre a Bologna tre premi Nobel si sono incontrati per parlare delle «macchine molecolari», congegni microscopici che in futuro saranno capaci di manipolare le molecole e assemblarle come i bracci meccanici di un robot industriale con dei pezzi da saldare. Non a caso nel panorama scientifico ci si interroga ormai sulla possibilità di costruire vere e proprie «nanofabbriche» che in un futuro non troppo lontano potranno permetterci di assemblare materiali direttamente ricombinando le molecole disponibili nell’aria che respiriamo: i famosi replicatori di Star Trek, ma nella vita reale. Di fronte a questa incipiente rivoluzione tecnologica c’è già chi prevede, come lo storico della scienza James Burke, un futuro in cui la disponibilità illimitata delle risorse sradicherà dal pianeta la competizione per il loro controllo, con tutto ciò che ne consegue: le diseguaglianze di potere, la povertà e i mali ad esse correlate, come il crimine e l’ignoranza. Mi piace chiamarla la «società dell’abbondanza universale».

Di fronte a tutto questo dov’è la politica? Mentre noi sprechiamo giornate a parlare dei post di Burioni e dei pugnetti di Toninelli, ci lasciamo sfuggire questioni ineludibili che riguardano il futuro dell’umanità. Cosa vogliamo fare con queste enormi potenzialità tecnologiche, in quale direzione vogliamo incanalarle? No, perché non è affatto scontato che l’utopia libertaria di Burke si realizzi. Tutto dipenderà da quali saranno le forze sociali che si porranno alla testa di questa grande trasformazione. I grandi capitalisti hanno già fiutato l’aria: i magnati Bill Gates e Richard Branson hanno già investito milioni di dollari sulla carne sintetica. Il perché si capisce. Immaginate di essere i primi al mondo a detenere una tecnologia in grado di produrre una merce in quantità illimitate a un costo unitario stracciato: il vantaggio acquisito sulla concorrenza sarebbe praticamente incolmabile. Vale per la carne, per l’energia e in futuro varrà anche per i prodotti di ogni altro genere.

Il problema è che l’attuale élite economica riproduce il proprio potere tramite la massimizzazione del profitto e lo scambio di mercato, e non ha nessun interesse concreto nel cambiare questo sistema. Certo, un mondo nel quale tutti i beni fossero disponibili illimitatamente e gratuitamente sarebbe auspicabile per tutti: non solo per la popolazione mondiale, ma anche per l’Olimpo dei miliardari che ad oggi sono gli unici a godere di questo privilegiatissimo status di consumo e non lo perderebbero. Semplicemente esso sarebbe esteso al resto della popolazione mondiale, quel 99% che i movimenti alter-global aspiravano (aspirano?) a rappresentare. Un mondo del genere rappresenterebbe insomma una situazione «pareto-efficiente», come direbbero gli economisti: tutti ne guadagnerebbero o al massimo manterrebbero la loro posizione. Tuttavia l’élite non ha gli incentivi necessari per costruirlo.

Perché? La motivazione è la stessa che sta alla base della distruzione ambientale che il sistema economico reitera anno dopo anno (aggravandola: dicono nulla Trump e Bolsonaro?). Certamente tutti beneficerebbero di una società globale rispettosa della natura, anche i ricchissimi. In fondo, viviamo tutti sullo stesso mondo. Tuttavia le conseguenze negative dei cambiamenti climatici non si ripercuotono egualmente su tutte le classi sociali. Piuttosto esse colpiscono l’umanità a partire dai più poveri. Con il tempo risaliranno la scala sociale e solo alla fine toccheranno l’élite. D’altronde oggi le popolazioni più colpite dalla desertificazione dei suoli e dai disastri naturali sono quelle rurali della fascia equatoriale, i Paesi tendenzialmente più poveri del pianeta. I membri dell’élite invece non hanno nessuno stimolo a impegnarsi realmente per cambiare l’economia globale e salvare l’ambiente. Essi vivono confinati nei loro lussureggianti quartieri dall’aria pulita, hanno accesso al cibo più sano e alle migliori cure mediche, possono permettersi uno stile di vita eco-friendly e i loro portafogli temono molto di più il segno meno a Wall Street che l’inaridimento dei suoli. Quando arriverà il disastro anche dalle loro parti, saranno già belli e defunti. A quel punto i loro figli e nipoti investiranno tutte le proprie risorse in una ben tardiva transizione ecologica, ma sarà troppo tardi.

D’altronde ciò che ha sempre mosso le fila della storia non sono solo le risorse a disposizione in un dato contesto, ma soprattutto le motivazioni intrinseche che muovono le classi sociali a utilizzarle in maniera conforme ai propri obiettivi. Mi spiego meglio: come raccontano Acemoglu e Robinson in Perché le nazioni falliscono, non basta scoprire l’America per utilizzare al meglio le sue ricchezze. E infatti i conquistadores spagnoli non ci riuscirono, a differenza dei britannici (che arrivarono ben più tardi!). La già opulenta nobiltà iberica era interessata al potere geopolitico, mentre la nascente borghesia inglese era desiderosa di arricchirsi ed emanciparsi socialmente. Così la prima sciupò una montagna di oro e argento in costosissime imprese militari, la seconda reinvestì questo grande patrimonio nella manifattura, dando origine alla prima rivoluzione industriale.

Oggi tutto il mondo rischia di diventare la Spagna del Cinquecento. Quando l’inesauribilità delle risorse sarà raggiunta, il mercato potrà considerarsi un’istituzione superata: il sistema dei prezzi infatti può esistere solo se l’offerta è limitata. Quando essa diverrà illimitata e universalmente disponibile (perché potremo ottenere tutto ciò che vogliamo assemblando molecole nell’aria, coltivando qualche cellula animale o facendo scontrare ad altissime temperature atomi di idrogeno), il prezzo sarà indefinibile. Del resto se tutt’oggi qualcuno provasse a vendere aria in bottiglia, nessuno sarebbe disposto a comprarla.

Però, c’è un però. L’élite attuale fonda il proprio potere sul mercato e sul profitto. Essa può già avere tutto quel che desidera. Quale movente, quale necessità dovrebbero spingerla ad abolire la fonte del proprio potere per espandere universalmente i suoi privilegi? A parte una sparuta minoranza illuminata, i grandi capitalisti utilizzeranno le tecnologie della post-scarsità preservando i meccanismi di mercato. Tuttavia per compiere ciò sarà necessario mantenere limitata l’offerta di risorse potenzialmente illimitate, esercitando un ferreo controllo sui mezzi di produzione. Nascerà così un «capitalismo della scarsità artificiale» che impedirebbe l’impiego socialmente ottimale delle risorse e il pieno sviluppo delle forze produttive dell’umanità. Peter Frase lo chiama anche rentism (da to rent, affittare), perché i prezzi dei beni saranno di fatto dei canoni d’affitto che ciascuno di noi sarà costretto a pagare ai proprietari dei brevetti di queste tecnologie. Per questo affermo che se ciò avverrà, si ripeterà quanto accadde in Spagna nel Cinquecento. Avremo l’America a disposizione (le tecnologie del futuro) e la utilizzeremo per riprodurre antichi privilegi d’élite non più funzionali al progresso umano. Eppure possiamo evitarlo.

Come? Ma per l’amor del cielo, guidando questa epocale trasformazione! E chi potrebbe sfidare il potere tecnocratico dell’élite, se non la politica? Chi ha il compito di impugnare gli interessi di quel 99%, vogliamo pensarci e costruire un’organizzazione degna di questa missione? È un programma politico che guarda alle sorti dei nostri nipoti, ma può essere applicato concretamente già oggi. Dobbiamo affermare il principio della collaborazione tra tutti gli Stati del mondo nella ricerca scientifica, per evitare che le nuove scoperte diventino uno strumento di ricatto geopolitico. Ricerca pubblica, s’intende, per spezzare il monopolio dei privati sulle nuove frontiere del progresso umano. E poiché la società dell’abbondanza universale, come la immagina Burke, non potrà che essere fondata sulla gratuità e sulla reciprocità, dobbiamo preparare il terreno al suo avvento. Le forme economiche che nel momento storico attuale incarnano questi valori sono quelle mutualistiche, attraverso le quali persone comuni condividono ciò i fattori produttivi di cui dispongono (lavoro, capitali, abilità) all’interno un’organizzazione democratica comune che permette ad esse di combinarli e beneficiarne collettivamente. Sto parlando concretamente delle cooperative e del terzo settore (imprese sociali, enti, associazionismo di varia natura). Invadiamo quest’economia gretta e individualista con la loro forza, occupiamola, prendiamone possesso!

Ma poi siamo sinceri, non ricordiamo niente degli ultimi dieci anni della storia italiana? Ai suoi tempi il M5S ha sfidato l’establishment mettendo sul piatto il futuro, pronunciando parole nuove: democrazia diretta, reddito di base, digitalizzazione. Oggi è già vecchio, nelle pratiche e nelle idee. Perché l’opposizione non vuole arrischiarsi a proporre alle persone un avvenire comune in cui credere, un progetto di società per cui impegnarsi? Perché non osa? Ne hanno più o meno consapevolmente bisogno tutti i salariati sfruttati che non vedono alternative a questo sistema. Ne ha bisogno la classe media. Ne ha bisogno persino la sorniona cara piccola borghesia che, per piccina che essa sia, tende a sentirsi parte dell’élite ma alla prossima crisi verrà scremata e declassata, com’è già successo negli ultimi anni. Ne abbiamo bisogno noi delle nuove generazioni, che ci avviciniamo al D-Day dell’ingresso sul mercato del lavoro senza gli strumenti politico-culturali e nemmeno gli esempi di vita adatti a far fronte comune contro le ingiustizie della società. Quindi osate, per la miseria. Tanto peggio di così non potete fare.


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