L’ombra molesta dei padri. ‘Disobedience’ di Sebastiàn Lelio, con Rachel Weisz e Rachel McAdams

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Ronit, fotografa newyorkese di successo, rientra a Londra nella comunità ebraico-ortodossa dov’è nata dopo aver appreso, in modo piuttosto oscuro, la notizia della morte del padre, il rabbino Krushka. Siamo in autunno e una patina parzialmente trasparente avvolge l’intero quartiere – le case anonime, i cortili, gli interni, gli steccati, i prati e un grande albero dai rami nudi. In mezzo a questi uomini che trascorrono la vita studiando la Torah e i commenti alla Torah e le note ai commenti alla Torah, e alle loro donne adunche e imparruccate, il Tempo si è fermato per sempre. Non c’è traccia delle aperture attuate dall’ebraismo riformato. Si venera e rimpiange il ‘gigante della fede’ appena scomparso, celebrando lo Shabbat secondo regole restrittive e rituali millenari: la recita del Kiddush e della Havdalah, l’accensione delle candele, la preparazione di piccole coppe di vino. La parola Elohim viene pronunciata in tono quasi estatico, dimenticando che il suo significato primitivo è E-l hem, ‘la loro potenza’, segno di una molteplicità divina venerata nella terra di Canaan.

Ronit viene accolta con stupore, imbarazzo e addirittura ostilità. La fuggiasca, l’eretica, la difforme, la ribelle, colei che ha voltato le spalle al padre, agli amici, alla fede e al suo popolo per vivere fra igentiles. Fuma e non accetta di essere ridotta al silenzio dallo zio supponente e integralista, risponde alle critiche acide delle donnette con provocazioni taglienti. No, non è sposata, no non ha figli, no preferisce non togliere la sciarpa. Eppure soffre la perdita di un’identità che sente necessaria, soffre sotto gli sguardi di quelli che un tempo vedeva ogni giorno, sguardi aguzzi come pietre pronte ad essere scagliate contro l’immoralista sorpresa dal padre in intimità con l’amica Esti, diventata durante la sua assenza moglie del giovane rabbino Dovid.

Viene ospitata da Dovid, o meglio relegata, in una camera/soffitta angusta, dalle finestre impossibili da aprire, dentro la penombra di un malva smorto e deprimente. Sottratta agli sguardi, come si faceva una volta con i figli minorati, perché non gettassero vergogna sulla famiglia. I sentimenti però sfuggono a qualsiasi tentativo di controllo. L’attrazione fra Ronit ed Esti torna in superficie con rapidità, le due ragazze non riescono a non toccarsi, a non baciarsi. Come nel Cantico dei Cantici(citato nel film) l’amore diventa il punto di contatto fra senso simbolico e senso naturale, fra eros e metafisica. Ma i depositari del verbo e custodi della fede (e della morale) sono ovunque, spiano bramosi di avvistare e censurare il Male, additare la colpa, mettere alla gogna, lapidare con la foia cieca degli esaltati.

Il cardine di Disobedience consiste esattamente in questa continua collisione fra l’identità culturale originaria (le cui tracce vengono seguite da Ronit ovunque, persino nei sapori dei dolci kosher) e quella individuale. L’unica strada percorribile sembra ogni volta la fuga: la ragazza ripete torno a New York quasi come un mantra, un’ammissione di colpa o di impotenza, un esorcismo di fronte all’incapacità di liberarsi per davvero dai retaggi e dai condizionamenti delle ombre dei Padri.

Per vivere un pomeriggio insieme senza l’angoscia della continua sorveglianza, Esti e Ronit usciranno dalla piccola, crudele Gerusalemme per attraversare la vera Londra, viva e affollata: la metropolitana, i bus, il vicolo con le pietre scabre accese di sole, l’albergo dove la testa di Ronit troverà una pace transitoria sul ventre di Esti.

Le vite di tutti i protagonisti verranno sovvertite dagli eventi e dai tormenti interiori. Dovid si scopre troppo umano, quindi inadatto a succedere al rabbino Krushka. Esti, in attesa di un figlio, subisce un’evoluzione interessante, riuscendo a conciliare la ritrovata libertà e la promessa fatta a Ronit con l’amore per Hashem, termine che rappresenta il dio nascosto, o l’impronunciabilità del nome di dio.

Ronit, pur non rinunciando all’indipendenza, rende omaggio nella sequenza finale alla tomba del padre, mostrandosi ancora una volta incapace di sottrarsi al dogma maschile. E’ vero che Krushka muore parlando ai fedeli di libera scelta ‘concessa’ da dio agli uomini, ma sembra davvero poco per parlare di interpretazione della Torah in chiave innovativa.


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