Veleni, mafie e “navi a perdere”

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di Andrea Carnì

«Ventidue anni, sei legislature, sette Commissioni parlamentari – includendo quella sul caso Alpi/Hrovatin – e diverse indagini dalla magistratura sono i numeri che mostrano il peso della vicenda, ma anche la difficoltà di pervenire a conclusioni univoche sull’interno fenomeno».
La relazione sulle “navi dei veleni” della Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti, approvata nella seduta del 28 febbraio 2018, con poche parole mostra tutta la complessità che ruota attorno (around) le “navi dei veleni” e le “navi a perdere”. Traffico e smaltimento illecito di rifiuti tossico-nocivi e di scorie nucleari, corruzione, traffico d’armi, collaborazione con la criminalità organizzata di tipo mafioso, traffico di materiale nucleare, omicidi, depistaggi o tentati depistaggi, collaboratori di giustizia ritenuti inattendibili e – come in ogni mistero italiano –  servizi segreti e logge massoniche, sembrano connettersi l’uno con l’altro per creare un garbuglio inestricabile di fatti, date, ipotesi e informazioni – vere, verosimili e false. Partiamo da una distinzione, netta e precisa nella sostanza: per “navi dei veleni”, riporta la Relazione citata pocanzi, s’intende il traffico di “rifiuti pericolosi italiani ed europei verso paesi extra Ue, con una prevalenza del Nord Africa” mentre per “navi a perdere” s’intendono «le navi affondate dolosamente con carichi di rifiuti radioattivi o comunque tossici, smaltiti illegalmente nelle profondità marine» (Relazione sulla morte del capitano di fregata Natale De Grazia).
Sia le vicende riguardanti le “navi dei veleni” che quelle inerenti le “navi a perdere” sono state esaminate fin dalla prima Commissione parlamentare d’inchiesta, ossia quella della dodicesima legislatura, dalla magistratura, dagli organi inquirenti, da giornalisti anche di grande spessore e dalle associazioni ambientaliste, sempre in primo piano nella lotta ai trafficanti di veleni. Ma c’è un dettaglio che non può e non deve essere dimenticato: sulle “navi a perdere”, a differenza di quanto accaduto per la Zanoobia o per altre “navi dei veleni”, vi è una lunga storia giudiziaria fatta di archiviazioni ma non di sentenze con una verità giudiziaria univoca.
L’unica nave su cui tutto l’iter giudiziario risulta espletato in ben due filoni è la motonave Rigel battente bandiera maltese ma, anche qui, vi sono delle notevoli anomalie dato che un filone giudiziario assolve gli imputati, dubitando fortemente o negando l’affondamento della motonave mentre l’altro condanna e ritiene attendibile e fuor di ogni ragionevole dubbio l’ipotesi dell’affondamento avvenuto e segnalato in coordinate 37°58’N -16°49’E, il 21 settembre 1987 mentre una “nave dei veleni”, la Radhost, qualche ora dopo sarebbe approdata a Beirut.
L’assenza di una verità giudiziaria e le difficoltà nel ricostruire una verità storica hanno consentito e, per certi versi favorito, la formulazione delle ipotesi più disparate sul tema e la connessione di molteplici fatti con l’ipotesi delle “navi a perdere”, convinti del fatto che tutto facesse parte di un unico sistema diretto da una «holding criminale internazionale» con connessioni con le mafie e in particolar modo con la ‘ndrangheta reggina. La questione Libanese veniva collegata all’affaire Somalia, con la “mala-cooperazione” italo-somala e con il cosiddetto progetto Urano in cui erano coinvolti uomini del Partito Socialista, consoli onorari, massoni, faccendieri e trafficanti. Inoltre si ipotizzava uno scambio di materiale illecito, un tanato-baratto: rifiuti da smaltire in cambio di armi da usare e dunque, medesime rotte per traffici differenti.
Gran parte di queste connessioni ad oggi risultano attendibili ma solo alcune di queste sono documentate e poche effettivamente provate. Si pensi ad esempio ai paesi (Somalia e Libano ad esempio) che ricevettero i rifiuti prodotti da aziende europee e ai periodi storici in cui li ricevettero (anni Ottanta e Novanta): l’ipotesi di uno scambio armi-rifiuti risulta per lo meno logica oltre che verosimile dato che in entrambi gli stati si stava combattendo, a tutti gli effetti, una guerra civile che lacerava i governi e frammentava le stesse fazioni. Inoltre, detto scambio, risulta attendibile e documentato per quanto riguarda la ‘ndrangheta reggina che tra il 1985 ed il 1991 combatteva la cosiddetta “seconda guerra” per il controllo del porto di Villa San Giovanni e per la gestione del potere. Il Centro Sisde di Reggio Calabria nell’agosto del ’94 scrive: «Morabito Giuseppe inteso Tiradritto, previo accordo raggiunto nel corso di una riunione tenutasi recentemente con altri boss mafiosi del luogo, avrebbe concesso, in cambio di una partita di armi, l’autorizzazione a far scaricare nella zona di Africo (RC), un quantitativo di scorie tossiche e presumibilmente anche radioattive che dovrebbero arrivare dalla Germania, contenute in bidoni metallici trasportati a mezzo di autotreni.»
Prima di giungere alla conclusione, è importante sottolineare la grande importanza che possono e dovrebbero avere i documenti, i procedimenti penali, seppur archiviati e il materiale parlamentare disponibile online. Solo attraverso essi è pensabile agire “come luce nell’ombra”, illuminando le connessioni reali e respingendo le ipotesi fuorvianti e i tentati – o riusciti – depistaggi. Partire da «dati storici consolidati, documentati e innegabili», come scrive la Relazione 2018: questo è ciò che bisognerebbe fare e che, con questa ricerca, ho iniziato a elaborare – ponendo la stessa come l’inizio e non come la fine di un lavoro.
Infine, se è vero che il ricercatore attraverso la studio delle fonti ha l’opportunità ed il dovere di distinguere i fatti e i dati documentati e innegabili dal resto delle ipotesi, è altrettanto vero che lo Stato ha, a sua volta, il dovere di fare emergere la verità sulle morti del capitano Natale De Grazia, della giornalista Ilaria Alpi e del suo operatore Miran Hrovatin. E sulle minacce e sui pedinamenti subiti dai magistrati – come nel caso di Nicola Maria Pace – da parte di agenti degli stessi servizi segreti, sulle ipotesi di navi cariche di veleni in fondo al mare, sull’ipotesi del traffico di materiale nucleare in partenza da centrali di Stato e diretto in Iraq o in Libia, sulle strade e sui porti costruiti dalla Cooperazione Italo-Somala e sulle testimonianze di occultamento di rifiuti tossici e radioattivi nelle stesse strutture in cambio di armi da guerra trasportati, secondo molti, attraverso navi della cooperazione e, in ultimo ma non per ultimo, sui rifiuti sotterrati o “depositati” in Aspromonte in altre zone della Calabria da parte della ‘ndrangheta, dato che, parafrasando l’affermazione Nuccio Barillà, se la Campania piange, è probabile che la Calabria non rida.

Da mafie


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