Marcinelle, i braccianti e il Di Vittorio d’Africa

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La storia, a volte, compie dei percorsi curiosi. Capita, ad esempio, che un bracciante italo-ivoriano, Aboubakar Soumahoro, sindacalista dell’USB e laureato in Sociologia, salito all’attenzione delle cronache lo scorso giugno in quanto collega di un altro bracciante, Soumaila Sacko, barbaramente assassinato mentre, insieme a due connazionali, prendeva delle lamiere per la propria baracca in una vecchia fornace abbandonata a San Calogero (Vibo Valentia), capita che questo giovane uomo guidi una marcia di braccianti, a Foggia, nel giorno in cui si celebrano contemporaneamente la protesta dei raccoglitori di pomodori delle campagne pugliesi, in sciopero per via della mattanza consumatasi nei giorni scorsi ai danni di sedici di essi, e il sessantaduesimo anniversario della strage di Marcinelle.
Marcinelle, Belgio, anno 1956: storie di fame e di miniera, di accordi discutibili e di uno scambio, braccia in cambio di carbone, che consentì sì all’Italia di approvvigionarsi di un bene imprescindibile ma pagando il prezzo altissimo dello sfruttamento dei nostri connazionali, costretti a vivere in condizioni misere e a lavorare negli abissi di luoghi disumani, inospitali e colmi di pericoli, al punto che la mattina dell’8 agosto duecentosessantadue operai persero la vita nella miniera del Bois du Cazier, tra cui centotrentasei italiani, la nazionalità più rappresentata in questa classifica dell’orrore.
Marcinelle, oltre sei decenni dopo, per non dimenticare mai che anche noi siamo stati un popolo di migranti, che anche noi abbiamo patito sofferenze indicibili, che anche noi siamo stati sfruttati, oppressi e sottoposti ad ogni forma di razzismo e discriminazione possibile.
Marcinelle, per non dimenticare i cartelli con su scritto: “Vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”.

Marcinelle, per non dimenticarci di quando eravamo noi a fuggire al Nord, in Belgio o in America alla disperata ricerca di un futuro migliore.
Un futuro che oggi chiedono a gran voce questi ragazzi africani, guidati da un personaggio che non credevamo neanche che esistesse: uno che quando parla sa il fatto suo, che ha vissuto sulla propria pelle le storie e i drammi di cui si occupa, che ha il coraggio di denunciare e la competenza e la cultura necessarie per farsi ascoltare.
Spesso, osservando i volti dei migranti che sbarcano sulle nostre coste, riflettendo sull’andamento demografico del Continente nero e comparandolo con quello europeo, mi sono detto che se mezzo secolo dopo dovesse verificarsi un nuovo Sessantotto, di sicuro avverrebbe lì. E sta avvenendo, infatti, come dimostra il desiderio di vita e di umanità che brilla negli occhi di quei giovani, con il berretto rosso in testa e la sacrosanta richiesta di una paga dignitosa e di condizioni di lavoro degne di una persona e non di uno schiavo.
Nelle campagne pugliesi, nei ghetti, nelle periferie dimenticate da tutti, nella Calabria che brucia e dalla quale i nostri giovani fuggono via, a volerla vedere, è racchiusa la ragione di esistere di una forza progressista: portare avanti coloro che sono nati indietro, nell’inferno del mondo, dove la vita non vale niente e i sacrifici sono all’ordine del giorno.
E quando sento Abou che cita Giuseppe Di Vittorio, mi rendo conto che oggi Di Vittorio da Cerignola starebbe lì, fra loro, proprio come ci stava un secolo fa, quando incitava i “cafoni” alla rivolta contro il padronato latifondista che, di lì a poco, avrebbe abbracciato il fascismo per difendere i propri sporchi interessi.

Oggi Di Vittorio e la sua eredità vivono negli sguardi e nella fatica di questi uomini colmi di dignità che ci stanno dando, con la loro protesta, una lezione di cui far tesoro: alzare la testa è sempre possibile, è sempre doveroso, è più che mai necessario, proprio perché le ingiustizie e le disuguaglianze sono diventate troppe e insostenibili.
Se un’altra Parigi, un’altra Praga, un’altra Città del Messico si verificheranno, avranno pertanto il color dell’ebano di questi idealisti che ancora non si sono rassegnati alla barbarie, che ancora non hanno perso tutte le illusioni, che ancora credono e sperano in qualcosa, che ancora vogliono ribellarsi allo sfruttamento e alle sue atroci conseguenze. E le proteste, i furori, i canti e le rappresentazioni di essi avverranno in una lingua e all’insegna di un Dio che non è il nostro, lanciando per questo un messaggio ancor più universale ed importante, al quale sarebbe folle restare indifferenti.

A sei decenni dalla tragedia di Marcinelle e dalla scomparsa di Di Vittorio, è bello sapere che proprio in Puglia il suo lascito è stato concreto, a dimostrazione che in quelle campagne, in quella regione splendida e maledetta qualcosa del suo messaggio è rimasto, forse più di qualcosa, ed è entrato nella mente e nel cuore anche di chi magari, a differenza di Abou, neanche sa chi sia.
Perché la lotta contro il precariato, il caporalato e la barbarie non ha confini, non conosce frontiere e ci riguarda tutti. Per questo dobbiamo sentirci fratelli di quei braccianti, promuovere una grande manifestazione contro il razzismo e fondare su di essa una proposta politica concreta e radicalmente alternativa alla maggior parte dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni.
Infine, un accorato appello alla sinistra o a quel che ne resta: se davvero vuoi renderti nuovamente credibile, assumi il volto di Abou e dei suoi compagni di lotta. Noi che scriviamo comodamente seduti in poltrona, abbiamo il diritto e, anzi, il dovere di esserci ma, per una volta, in seconda fila.

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