Lo Stato preso a schiaffi

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di Giuseppe Baldessarro

Lo Stato in Calabria, a Reggio e nella Piana di Gioia Tauro, è ovunque ma stenti a riconoscerlo. Gaetano Saffioti lo Stato aveva visto, ed aveva l’immagine di uno straccione. Lui stesso aveva vestito i panni dello Stato vestendo una divisa disprezzata, derisa, offesa, lacera di strappi e macchiata dai suoi stessi servitori.
La sua era una divisa, quella degli agenti della Polizia penitenziaria. Piuttosto che perdere tempo facendo il militare aveva fatto i test per andare a lavorare da agente vicino casa. A Palmi c’era il super carcere per gli irriducibili della Brigate Rosse. Nei bracci speciali calabresi c’erano Renato Curcio, Prospero Gallinari, Emanuele Attimonelli e tanti altri, praticamente il vertice politico-militare dell’organizzazione. Per Gaetano però Palmi significava anche casa, e casa significava lavoro. Il primo giorno al super carcere non lo dimenticherà mai. Era la mattina del 2 agosto 1980, e mentre faceva il giuramento la tv nazionale e le radio mandavano in onda le urla disperate dei soccorritori di quello che sarebbe diventato uno dei misteri irrisolti d’Italia. A Bologna era appena esplosa la bomba alla stazione.
Il primo periodo lo trascorse nel braccio riservato ai terroristi. Lunghi corridoi freddi, volti tirati, lunghi silenzi. I brigatisti con le guardie non ci parlavano quasi per niente. Erano lo Stato e con lo Stato non si discuteva, i contatti erano limitati praticamente a monosillabi, ordini o provocazioni sussurrate. Nulla di più.
Gaetano ricorda ancora oggi il giorno, anzi la notte, in cui le istituzioni uscirono a pezzi da una sala colloqui del super carcere di Palmi in una sera fredda tra l’80 e l’81. Era in servizio. I notturni erano molto più faticosi, ma consentivano a Gaetano di lavorare di giorno. Dall’ufficio lo mandarono a chiamare per portare di sotto un brigatista. Ad attenderlo c’era un magistrato arrivato da Bari. In tre percorsero il lungo corridoio che portava alla cella dove l’uomo in pantaloncini e maglietta a maniche corte stava cucinando. Neppure si voltò verso di loro quando rispose alla chiamata: “Ora non posso sto facendo la maionese, se mi fermo impazzisce forse dopo”. Il tira e molla per far andare il detenuto in sala colloqui andò avanti per quasi mezz’ora, sempre la stessa risposta: “Ora non posso”. Quando finalmente decise che era tempo di seguire le guardie, il brigatista si mosse lentamente senza fare una piega. Si fece accompagnare in ciabatte, così come stava in cella, nonostante il freddo pungente. Alla richiesta di vestirsi in maniera decente la replica fu immediata: “Se volete vengo come mi pare, altrimenti ve ne andate tutti affanculo”.
Il giudice se lo trovò in piedi davanti al tavolo. Ne’ un cenno di saluto ne’ nulla d’altro. Spazientito iniziò l’identificazione per notificargli un provvedimento o qualcosa del genere: “Lei è… nato a… residente in … accusato di…?”. Quando ebbe finito di leggere la scheda che aveva sul tavolo il magistrato alzò istintivamente la testa in attesa di risposta. Il terrorista ebbe uno scatto in avanti, arrivando preciso a piazzare una sberla sonora tra faccia e collo del giudice che volò via verso dietro: “Si sono io, e tu chi cazzo sei?”. Ci vollero diversi minuti per far riprendere il poveraccio e riportare in cella il brigatista che se ne tornò alla sua maionese come se nulla fosse successo: “Tranquilli non gli faccio niente”. Sbigottito il maresciallo rivolgendosi al magistrato non seppe dire altro che “dottore questo si prende un’altra condanna”. E lui con il sangue che gli colava dal naso e un dente saltato: “Mi raccomando maresciallo quello che è successo qua non deve trapelare”.
Era quello lo Stato davanti agli occhi di un 18 enne.
Uno stato preso a schiaffi e incapace di reagire con autorevolezza. Lo Stato non c’era, per Gaetano.

( 6 – continua)

Da mafie


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