Giacciono sotto la stessa terra 

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Nella martoriata terra di Palestina altri ragazzi in questi giorni sono morti. Uno era quasi un bambino, aveva 15 anni ed è morto in seguito alle ferite riportate durante la manifestazione per la Nakba, in Cisgiordania,  mentre chiedeva il rispetto delle legge internazionale. Disarmato. Si chiamava Odai Akraam M. Abu Khalil, aveva gli occhi azzurri, un sorriso aperto al mondo, ed era bello. Gli ha sparato un soldato dello Stato assediante, probabilmente di pochi anni più grande di lui, il quale per questo e forse per altri omicidi, presumibilmente verrà premiato per aver svolto egregiamente il suo lavoro. Esattamente come il suo collega, quello che ha ferito a morte Hussein Abu Aweida che aveva un carrettino di gelati in uno degli accampamenti della Grande marcia del ritorno. Era anche distante dal border, ma il cecchino lo ha centrato lo stesso e dopo un’agonia di diversi giorni oggi è morto. Anche lui ucciso da un soldato che faceva bene il suo lavoro. Un lavoro non nobile, ma pur sempre un lavoro. Quel tipo di lavoro che il poeta cristiano padre Turoldo, in un verso di una sua poesia, sintetizzava scrivendo “dove finisce l’uomo comincia il soldato”.

La libertà e il rispetto della legge che chiedevano in luoghi diversi Odai Akram e Hussein Abu Aweida davanti ai loro assassini sono rimaste istanze rivolte al cielo. Altri seguiteranno a chiederle e a camminare sui loro passi, ma saranno passi sempre più duri perché poggiano su un terreno troppo imbevuto di sangue.

Un altro ragazzo di nome Ronen Lurbasky è morto a pochi chilometri da Hussein ma molto vicino a Odai, perché in fondo la Palestina tutta, anche quella parte che oggi si chiama Israele, non ha grandi distanze. Potevano essere fratelli Ronen e Odai, solo cinque anni di differenza, Ronen aveva infatti 20 anni ed anche lui è morto non subito, ma in seguito alle ferite riportate mentre entrava armato, insieme ad altri soldati israeliani, nel campo profughi di Al Amari, vicino Ramallah, in territorio a tutti gli effetti palestinese, per una delle continue retate che l’esercito occupante compie quotidianamente nei campi profughi in Cisgiordania. Entrano le jeep blindate e seminano un po’ di terrore, di solito vanno per arrestare qualcuno, a volte vanno ad arrestare addirittura bambini di sette, otto anni accusati di aver tirato dei sassi,  ma più spesso ragazzi di età variabile tra i 16 e i 25-30 anni rei di resistere all’occupazione.

Come succede regolarmente in questi casi, la comunità del campo, che non sa neanche chi sarà il prossimo arrestato, cerca di respingere i soldati occupanti con l’unica arma che ha: le pietre. Ne nascono scontri. Sono scontri impari, è ovvio, infatti spesso ci scappa il morto, ovviamente palestinese, spesso il ferito, sempre palestinese com’è ovvio visto che i palestinesi non hanno armi, ne hanno caschi o giubbetti antiproiettile. Comunque di solito i soldati dell’IDF – quell’esercito che Israele ha definito il più morale del mondo, locuzione che tutti ormai hanno fatto propria per coazione a ripetere –  devastano qualche abitazione e arrestano qualcuno anche senza una precisa accusa, basta essere stato notato come resistente all’occupante per finire in prigione per un mese, un anno, venti anni, dipende.

Stavolta, al rituale lancio delle pietre da parte dei palestinesi, si è aggiunta la caduta, probabilmente voluta per evitare l’arresto da parte dei soldati, di una lastra di cornicione dal terzo piano della casa in cui i soldati stavano facendo irruzione e questa ha colpito Ronen Lubarsky sulla testa. Ronen, 20 anni,  è morto mentre faceva il suo dovere. Un brutto dovere, forse lo avevano convinto che i palestinesi non hanno diritto a nessuna forma di rispetto e se alzano la testa li si può arrestare o uccidere, forse invece non aveva avuto il coraggio, che alcuni ragazzi israeliani hanno, di dire “NO, io il servizio militare contro un popolo illegalmente occupato non lo faccio”. Non lo sappiamo. Quel che sappiamo per certo è che nessuno parlerà di eccesso di difesa rispetto al lanciatore della grossa pietra, ma in tanti, come pappagalli ammaestrati, ripeteranno le parole di Netanyahu e chiameranno eroe il soldato che andava, sebbene sotto comando, a svolgere il suo dovere di oppressore, e chiameranno terrorista chi ha lanciato la lastra di pietra che lo ha ucciso.

Ora più famiglie piangono i loro ragazzi e per pietà umana auguriamo che tutti  riposino in pace. La morte è una livella, recitava il grande Totò in una sua poesia, è vero, ma prima della morte qualcuno era l’oppresso e qualcun altro l’oppressore. Dimenticare questo non aiuta né la comprensione della questione israelo-palestinese, né tantomeno aiuta il difficile percorso verso una giusta pace, quella che non potrà mai essere possibile finché Israele, incommensurabilmente più forte tra le due parti, seguiterà ad occupare la Palestina in violazione di tutte le norme del Diritto internazionale. Finché distruggerà scuole e distruggerà villaggi, finché ucciderà e ferirà centinaia e migliaia di inermi, come ha fatto in queste settimane alla Grande marcia del ritorno, avanzando perfino il diritto a non essere giudicato.

Che riposi in pace il soldato israeliano, nella stessa terra in cui riposano gli oltre 115 palestinesi, tra cui diversi bambini, di cui forse qualcuno ucciso anche da lui o da qualche suo amico con la stessa divisa, convinto che gli ordini vanno eseguiti.


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