Renzi: giocate pure se volete ma il pallone ce l’ho io

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A portar via il pallone nella partita tra piddini e grillini per il governo, Matteo Renzi, dimissionario per burla, non ha voluto aspettare neppure il fischio di inizio. Lo ha fatto dallo schermo televisivo di una RAI a lui devota (ancora per poco), nella trasmissione domenicale di Fabio Fazio gentilmente concessa. Volete decidere in direzione se aprire un tavolo di confronto? Ha detto da lì al suo partito. Giusto, ci mancherebbe, siamo o non siamo un partito democratico? Il tavolo apriamolo pure, anzi facciamolo in streaming, ma non per trattare su un programma di governo. Chi ha perso secondo me non può andare al governo. Con i vincitori del 4 marzo, Lega e 5 stelle, ripartiamo dal 4 dicembre 2016, da quella vittoria dei NO al referendum costituzionale che è stata la vera data di inizio delle sventure politiche. Non solo nostre, sostiene Renzi, del Paese intero. Ci dicano i vincitori come intendono cambiare le istituzioni, che di certo così non funzionano. Sono pronto a riscriverle insieme a loro.

“Un ego smisurato”, commenta deluso Luigi Di Maio.

Dunque, alleanza o “contratto” che sia, la proposta del segretario reggente Martina per l’apertura di un tavolo di confronto con Di Maio e i Cinquestelle verrà molto probabilmente respinta dalla direzione del Pd il 3 maggio prossimo. I programmi elettorali non c’entrano. La conta dei punti di contatto, a cui Travaglio richiama ogni sera a RAI 3 l’attenzione degli spettatori di “Otto e mezzo”, gli stessi che Di Maio ha elencato nella sua lunga lettera al Corriere della Sera di ieri, semplicemente non interessa. La risposta alla lettera chiesta ieri dall’Annunziata al ministro Calenda poteva riassumersi in una sola frase: non ci stiamo perché non ci fidiamo. Punto.

Il fatto è che Matteo Renzi e i dirigenti o parlamentari da lui nominati (siamo o non siamo un partito democratico?), che in direzione conservano la maggioranza, non riescono neppure a ipotizzare un “governo del cambiamento” diverso e addirittura alternativo a quelli del Pd. A “cambiare verso” al Paese avrebbe già provveduto  il leader democratico se non fosse stato inopinatamente bocciato il 4 marzo dagli elettori. Dunque nessun confronto, se non alla pre-condizione – ha precisato Ettore Rosato – che “considerino la stagione delle riforme Pd un elemento positivo per questo Paese”.  Dal jobs act alla “buona scuola”, nessuna delle riforme sopravvissute a quell’incomprensibile No sul referendum costituzionale dovrà essere messa in discussione a quel tavolo. Se qualcuno, anche all’interno del Pd, obietta che sei milioni di voti persi dimostrano che quelle riforme non sono state apprezzate dai cittadini, i renziani sono pronti ad ammettere che sì, qualche errore di comunicazione c’è stato.

Claudio Tito su Repubblica cita Matteo Richetti, un fedelissimo dell’ex segretario. “Se loro rinunciano alla premiership di Di Maio, accettano di lasciare il Jobs Act, accettano di non cambiare la legge sui vaccini, di lasciare immutata la “buona scuola” e magari di non intervenire sulla Fornero, allora va bene”. Insomma, se vogliono accordarsi con noi, i vincitori si accomodino sotto le forche caudine. Considerando i precedenti, si può ritenere probabile che con Berlusconi  e il centrodestra scemerebbero le pretese. Ma forse non è più questo che ha in mente il senatore di Rignano.

Chissà che Salvini, in crescita nei sondaggi e dopo il buon risultato nelle elezioni regionali del Friuli, non prenda coraggio e decida di mollare Berlusconi. Anche Renzi, come il suo alter ego Marcucci che “non vedeva l’ora”, continua a puntare  sul governo di Lega e 5 stelle, con relativo auspicato naufragio. E nell’attesa di nuove elezioni rottamare quel poco che resta della sinistra nel Pd. “Gettare le basi per la frattura definitiva del vecchio partito”, ipotizza non senza fondamento Stefano Folli. Per conquistare, con o senza il beneplacito di Berlusconi, la leadership dei moderati. “Quod erat in votis”. Il “partito della nazione” finalmente.

Martina, Franceschini, Orlando, Emiliano, Cuperlo, Zanda, Damiano proveranno naturalmente a resistere. Il segretario reggente ha prospettato l’eventualità di sottoporre l’esito della trattativa coi 5 stelle al giudizio della base, consultazione formale dei circoli o un referendum vero e proprio come hanno fatto i socialisti tedeschi. “E così per Orlando a decidere se fare un inciucio con il M5S sarebbero gli attivisti 5 stelle e gli iscritti di Rousseau”, ha commentato sarcastico Michele Anzaldi, altro fedelissimo. Il quale probabilmente ricordava il soccorso camuffato degli elettori di centrodestra nelle primarie che portarono all’elezione di Renzi alla segreteria del Pd. Chissà se un referendum “aperto” replicherebbe quella fatale vittoria. In verità io penso che non ce ne sarebbe bisogno. In questi anni, a furia di scissioni e fughe individuali, anche la base degli iscritti, oggi notevolmente ridotta, è profondamente mutata. Comunque, a mio avviso, si tratta solo di congetture. Con quei numeri in direzione non ci sarà niente su cui chiedere un parere definitivo, nè ai tesserati né ai simpatizzanti o presunti tali.

Fallito questo secondo tentativo, che farà Mattarella? Un governo istituzionale “con tutti dentro” è già stato escluso in partenza dai “vincitori” del 4 marzo, Lega e Cinque Stelle. A meno di un improbabile ripensamento, non ci sarà. Un ricorso immediato alle urne con la stessa legge elettorale non farebbe che confermare se non addirittura aggravare l’ingovernabilità. Un governo di minoranza affidato al centrodestra (Giorgetti piuttosto che Salvini) oppure a Di Maio potrebbe apparire al Quirinale come il male minore. Nessuno però ha le confortanti certezze del direttore emerito della Repubblica, Eugenio Scalfari, che nell’editoriale domenicale è già in grado di prevedere il proseguimento del governo Gentiloni fino al 2019, seguito a ruota da un governo di Luigi Di Maio, allenatosi nel frattempo alla successione, con Gentiloni ministro degli esteri e Minniti agli interni, il resto a discrezione. Non vedo l’ora.


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