Kim ki-duk, il prigioniero coreano

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Vorrei azzardare una profezia e una scommessa: il film di Kim Ki-duk porterà alla riunificazione delle due Coree. Perché? Perché Kim Ki-duk è un poeta, e per l’umanità sono più importanti i poeti dei politici. Al contrario di ciò che si crede comunemente, sono i poeti a cambiare la storia non i condottieri, i principi e i Granduchi e meno che mai gli amministratori e i burocrati del Castello di  Kafka. La guerra di Troia con cui prende forma di parole la vicenda del genere umano – un conflitto originato dal tradimento di una donna – esiste perché Omero ce la racconta nell’Iliade  e nell’Odissea. Nulla comprenderemmo senza il contributo degli artisti, senza la loro prodigiosa lanterna che rischiara il cammino. Il verso di un poeta mandato a memoria può sovvertire la visione che abbiamo del mondo.

Ai giorni nostri, in pieno terzo millennio, per capire qualcosa su ciò che accade nel lontano Oriente, apparentemente così lontano da noi eppure così vicino, sarà più utile di mille articoli di giornale e dibattiti televisivi correre a vedere Il prigioniero coreano, 114 minuti di puro cinema capace di commuovere intensamente e indurre a riflettere. Bentornato Kim Ki-duk! verrebbe da esclamare, dopo la sua protratta assenza causata, abbiamo letto in qualche servizio, da una cupa depressione. Bentornato all’autore di film che ci hanno profondamente emozionato: “Primavera Estate Autunno Inverno e ancora Primavera”, un cantico sulla vita in cui immergersi come in una fonte di salute; l’avvicendarci delle stagioni che si specchiavano in quel minuscolo lago, ci ha aiutato a conoscere meglio la Corea e noi stessi. Come è anche accaduto per le storie di  “Ferro 3 La casa vuota”, o “L’arco”, o “Pietà”(Leone d’Oro al Festival di Venezia). Sebbene sia sempre riduttivo citare singoli titoli, dal momento che di un autore conta l’opera nel suo insieme, ogni frammento è la tessera insostituibile di un unico mosaico.

Questa volta il regista ci avvince con le traversie del pescatore Nam Chul-woo. La moglie lo sveglia alle prime luci del mattino scuotendolo teneramente: è ora di alzarsi! Gli ha già preparato la colazione, il riso e una zuppa, che lui inizia a mangiare ancora seduto sulla stuoia. Dall’alto di una parete dell’umile bicocca, vigila il ritratto del compagno Kim Jong il, presidente della Repubblica Popolare Democratica della Corea del Nord. Gli sposi sono due trentenni in buona salute; si guardano, lei gli rivolge un complimento e lui avverte un diverso appetito. La bambina di cinque anni sta ancora dormendo su una stuoia accanto alla loro, abbracciata al suo orsacchiotto sdrucito; quando sente i genitori che fanno l’amore apre gli occhi e li sbircia, ma subito dopo tira la coperta sulla testa per non assistere ai gemiti della madre. Il pescatore lascia la sua casa poverissima e si avvia al fiume; come ogni mattina presenta i documenti agli uomini di guardia nella garitta, scambiando con loro poche parole cordiali: “Stai attento, oggi le correnti tirano verso sud”, lo avvertono. La barchetta a motore guadagna il largo verso una simbolica barriera galleggiante che separa le due Coree. Il pescatore getta le reti, ma quando le ritira le maglie si aggrovigliano attorno all’elica. La barchetta alla deriva ora rischia di sconfinare; nella paura il pescatore si scompone, accelera quanto più può bruciando il motore. Alza le braccia per chiedere aiuto, disperato. Le guardie che lo stanno tenendo d’occhio dalla garitta hanno la consegna di sparare a chiunque oltrepassi il confine verso sud; uno dei due militari già lo inquadra nel mirino telescopico, mentre in piedi nella sua barca, in mezzo a quell’acqua grigia e uniforme come il cielo, il pescatore si sbraccia per scongiurare il peggio. L’esitazione del giovane fuciliere, incapace di ucciderlo a freddo, gli salva la vita, ma le infauste conseguenze sono quasi peggio della morte. Mentre la moglie, ignara, sta ricucendo gli strappi del logoro orsacchiotto della bambina, il marito sparisce inghiottito da una brutta favola. Viene recuperato e portato in salvo dagli agenti della prospera e democratica Corea del Sud: un disertore, un rifugiato, o una spia? Ogni ipotesi è legittima nel clima di ostilità tra le due nazioni sorelle. L’uomo viene spogliato, lavato, ospitato in un’accogliente camera dotata di ogni confort; gli viene servito un vassoio stracarico di cibo vario e assai invitante; viene rivestito con indumenti  da sogno, una tuta calda e sneakers sgargianti. I suoi vecchi stracci vengono bruciati per igiene. Il pescatore è terrorizzato; questa trasformazione sarà interpretata alla stregua di un tradimento quando ritornerà in patria, lo accuseranno di essersi venduto ai nemici del regime, e per lui saranno guai a non finire. Prega e scongiura di essere rimandato a casa dalla moglie e dalla figlia, ma questo non può accadere. Prima dovrà sottoporsi a un regolare interrogatorio per chiarire  la sua posizione; e nel frattempo il motore della barca sarà riparato. Dovrà spiegare alle autorità locali come mai si sia cacciato in quel pasticcio, se per un vero contrattempo o ubbidendo a un disegno spionistico. Per appurare la verità viene affidato alle grinfie di un ispettore fanatico, anticomunista ossessivo, probabilmente a causa di traumi infantili. Per fortuna gli viene messo a fianco anche un giovane assistente, dolcissimo: “Sono qui per proteggerti”. “Per spiarmi!” Ribatte aspro il prigioniero, che non accetta nessuna intesa col ‘nemico’ e mantiene un atteggiamento ostile, aggressivo. E’ un uomo forte, muscoloso, ha un corpo elastico. “Appartieni alle forze speciali?” Si informano sospettosi. E scoprono che ha servito come militare nei reparti di assalto. In una stanzetta spoglia gli danno carta e penna: davanti al suo inquisitore dovrà scrivere passo per passo tutta la sua vita, e alla prima contraddizione dovrà ricominciare da capo, sotto la lampada accecante, senza dormire. Per quanto il giovane angelo custode si affanni a difenderlo, anche davanti ai superiori, persuaso com’è della sua innocenza, l’inquisitore ha il sopravvento, ottiene di poter ricorrere alle maniere forti, alla tortura se serve. Il prigioniero è un animale in gabbia, rifiuta ogni contatto con l’esterno, non vuol vedere nulla del paese che lo ospita, per non aver nulla da riferire al suo ritorno, quando lo torchieranno con non minore brutalità. Agli orinatoi, un altro prigioniero gli affida un messaggio in codice, gli indica a chi portarlo una volta libero. Subito dopo il malcapitato, per non subire un nuovo interrogatorio, si getta a terra e si trancia la lingua con i denti, morendo dissanguato.  La politica della Corea del Sud è quella di utilizzare i clandestini per la propaganda contro il regime dittatoriale e liberticida; per convertirli vengono esposti alle mille lusinghe di Seul. Caricato in auto in visita alla città, Nam Chul-woo tiene gli occhi serrati, non vuol vedere nulla. Ma il suo angelo custode, eseguendo le istruzioni, lo abbandona in una delle strade di lusso del centro. Dopo aver vagato alla cieca il prigioniero è costretto ad aprire gli occhi e si trova davanti uno scenario inimmaginabile: vetrine scintillanti, negozi traboccanti di merci, passanti eleganti e gentili, ovunque il trionfo del consumismo, della tecnologia, della felicità merceologica. Ogni sua reazione, ogni suo gesto viene ripreso, registrato osservato sugli schermi. Simile a una fiera braccata l’uomo si rifugia in un dedalo di vicoli; vede tre balordi che stanno pestando una ragazza seminuda e interviene per aiutarla; quelli gli si rivoltano e lui li stende a terra uno dopo l’altro con pochi colpi micidiali. Poi si toglie il giaccone nuovo per coprire la donna, ancora più bella nella lingerie seducente che mai potrà ammirare addosso a sua moglie. La ragazza lo supplica di prenderla con sé, gli farà i lavori in casa, qualsiasi cosa pur di sfuggire alla prostituzione. La sente parlare al telefonino con la madre lontana, alla quale invia i soldi perché le accudisca la figlia, la faccia studiare, la avvii a un’esistenza pulita. L’uomo non si capacita: “Che democrazia è questa dove una donna deve vendere il proprio corpo per mangiare!” E’ proprio un osso duro il prigioniero; e alla fine ce la farà a tornare nel suo Paese, da sua moglie e da sua figlia. Ma un virus infido lo corrode da dentro, e la scena del ritorno in famiglia sprigiona una poesia amara e struggente. Il regime comunista, ancora più sospettoso di quello a cui è appena scampato, lo arresta: “Perché quando s’è rotto il motore non hai abbandonato la barca e ti sei buttato a nuoto?”. “Perché la barca è tutto ciò che possiedo”. “Dunque è più importante del partito e del compagno Presidente?!” Ricominciano gli interrogatori, le botte, la violenza, la sopraffazione. E affiora anche una corruzione mascherata, e fetida. Lo spettatore scoprirà la ragione di tale aggettivo.

Come uscire da una macchina infernale che annulla e umilia gli essere umani sotto qualsiasi cielo, dietro qualsiasi sistema e ideologia? Come sopravvivere, come salvarsi la pelle, se sei soltanto un insignificante pescatore senza valore, tenuto in sospetto dal potere? Il film ha in serbo la sua risposta, e noi usciamo dalla sala gravati da un dolore sordo, impotente. Ma anche con una fiammata di speranza: se è crollato il muro di Berlino che sembrava eterno, si dissolverà un giorno anche il confine tra le due Coree. Per merito dei poeti. E forse anche di un attore come Ryoo Seung-Bum, interprete formidabile che avrebbe ben figurato in un film di Akira Kurosawa.


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