Il “padrone” del santuario che piace alla ‘Ndrangheta

0 0

di Alessia Candito

Per un pezzo di Calabria, Papa Francesco può continuare a sgolarsi inutilmente. In barba agli appelli antimafia del pontefice, c’è chi fra i suoi sacerdoti con ‘ndrine e clan – per di più di massimo livello – continua a trovarsi a proprio agio
E ci sta così bene da figurare fra gli imputati di un maxiprocesso antimafia, dove gli tocca difendersi dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e partecipazione ad un’associazione segreta in odor di ‘Ndrangheta. Contestazioni pesanti ma più che giustificate per i magistrati perché della terra di mezzo in cui si mischiano borghesia e clan, don Pino Strangio – sostengono gli inquirenti – era e forse è un fondamentale punto di riferimento.
Per decenni canonico del santuario di Polsi, luogo sacro dei clan che lì convergono ogni settembre per la festa della Madonna della Montagna, don Pino di quell’umanità per anni è stato portavoce e pubblico difensore. Parente di quegli Strangio divenuti noti per la strage di ferragosto che ha mostrato alla Germania il volto più sanguinoso della ‘Ndrangheta, dal pulpito per anni il parroco ha tuonato contro giornalisti, forze dell’ordine e magistrati, accusati di perseguitare intere famiglie «solo per il cognome che portano».
Quando qualcuno osava ricordare la particolare e sospetta densità mafiosa della comunità di pellegrini che affollavano il suo santuario, era sempre il primo a insorgere. E quando qualcuno faceva notare quelle pesanti parentele che forse non facevano di lui la persona più adeguata a gestirlo, non ha mai esitato a rispondere per le rime.
«Che mandino un maresciallo a predicare, così la facciamo finita una volta per sempre» ha detto nel ‘99 con una durezza quanto meno inusuale per un “servo di dio”, sulla carta disponibile a svolgere il proprio apostolato in ogni angolo del globo
Ma servo don Pino non lo è mai stato. Di Polsi e San Luca, pugno di case arroccate sui fianchi dell’Aspromonte da cui il santuario dipende, è sempre stato il padrone, uso a diffondere il proprio verbo non solo in chiesa, ma anche per le vie del paese, dove messaggi e omelie per anni hanno risuonato grazie a potenti altoparlanti. A nome delle pecorelle della sua comunità invece, don Pino non ha mai esitato a usare i microfoni, che per anni gli sono stati messi (o ha chiesto che gli fossero messi) sotto il naso.
Indignato, su ogni media disponibile ha tuonato contro le autorità ogni volta che la Questura ha vietato i funerali pubblici di picciotti e boss per evitare che si trasformassero in informali summit. Tronfio, ha difeso la decisione dei cittadini di San Luca di voltare le spalle alla democrazia, rifiutandosi di presentare liste per le elezioni. E persino in tribunale, quando è stato chiamato a testimoniare, non ha esitato a schierarsi a difesa dei suoi.
E se questo avveniva in pubblico, ben più preoccupante – dice l’inchiesta che oggi lo ha spedito davanti ai giudici – è stata per anni l’attività che don Pino Strangio ha svolto in segreto. Era lui a incontrarsi regolarmente con esponenti di punta della ‘Ndrangheta reggina per discutere di candidature, elezioni, alleanze. Sempre lui a tentare di riservare a sé e ai suoi importanti finanziamenti regionali. Era lui a progettare di “offrire” un paio di latitanti di medio rango per disinnescare la pressione dello Stato su San Luca, ma soprattutto – emerge dall’inchiesta – ad alimentare la macchina del fango contro i magistrati reggini quando quei tentativi sono caduti nel vuoto.
E forse non si tratta solo di iniziative personali. Per i pentiti, quello di don Pino è un compito ereditario. «Don Stilo – dice il collaboratore Marcello Fondacaro – lasciò la sua eredità a don Strangio di San Luca, la sua eredità intesa eredità di rapporti, di rapporti politici, di rapporti massonici». Parente del potentissimo clan Morabito di Africo, padrone dei fondi per la ricostruzione post alluvione e di una scuola trasformata in diplomificio e rifugio per affiliati e latitanti, per alcuni persino massone di rango, arrestato per mafia e poi scagionato, don Stilo è morto senza esser mai stato raggiunto da una condanna.
Ma per i pentiti era sacerdote e uomo di riferimento della ‘Ndrangheta. E non è morto senza eredi. «Don Pino Strangio era malandrino, a Gioia Tauro – dice il pentito Antonio Russo –  era ben quotato nell’ambito della ‘Ndrangheta diciamo… per la ‘ndrangheta era un malandrino, non perché era stato battezzato ma per i fatti che lui faceva».
Tutti elementi che tuttavia alla Chiesa calabrese non sembrano essere bastati per prendere le distanze dal suo sacerdote. Ufficialmente vescovi e preti si spellano le mani per il nuovo corso – quanto meno ufficialmente – antimafia del Vaticano, alcuni rispediscono al mittente offerte che puzzano di clan, ma a don Pino la gerarchia cattolica calabrese non sembra voler rinunciare. Da Polsi è stato allontanato, o meglio sono state accettate le sue dimissioni.  Ma a San Luca Pino Strangio rimane il padrone. Della parrocchia e probabilmente anche della comunità.

Da mafie


Iscriviti alla Newsletter di Articolo21